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Una parola offerta sia come sostantivo, sia come aggettivo: “comunità”, “comunitario”.
Il senso della parola nella Traccia non è spiegato; lo si ritiene scontato.
E proprio qui nasce la mia riflessione, inizia la frontiera delle mie domande.
Quando – mi chiedo – un gruppo diocesano o parrocchiale – dall’Azione Cattolica all’Agesci; dal Rinnovamento dello Spirito ai Neocatecumenali…eccetera – può dirsi “comunitario”? Come facciamo a parlare di “vita comunitaria” in senso evangelico e attribuirne la qualifica a un Gruppo ecclesiale? Non ci resta, per capirlo, che aprire le pagine del Vangelo.
“Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri” leggiamo in Giovanni 13,35.
E’ qui, a mio parere, la sfida per i Gruppi ecclesiali. Ci si prepara davvero al Convegno di Firenze solo se ci si sforza di vivere in pienezza il “nuovo umanesimo in Cristo”.
Ma, mi domando, come può essere vissuto l’umano – all’interno dei Gruppi – in maniera più alta dell’amore fraterno? Ma, mi domando ancora, è vissuto all’interno dei nostri Gruppi ecclesiali l’amore fraterno? Ed ancora – e la domanda qui diventa perfino straziante – è vissuto l’amore fraterno tra un Gruppo e l’altro in diocesi e nelle parrocchie? O prevalgono l’ignorarsi l’un l’altro, l’indifferenza, o addirittura l’alzarsi di steccati tra un gruppo e l’altro? Come potrà essere vissuto l’umano, se ignoriamo nei fatti la strada che l’Uomo-Dio ci ha indicato? Il nuovo umanesimo, infatti, è sempre la Traccia a ricordarcelo, non è un “modello monolitico”.
E’ invece un termine – ci viene detto – che “si declina al plurale”. Il nuovo umanesimo in Cristo è, insomma, un “umanesimo sfaccettato e ricco di sfumature”; dentro il quale “solo dall’insieme dei volti concreti, di bambini e anziani, di persone serene o sofferenti, di cittadini italiani e d’immigrati venuti da lontano, emerge la bellezza del volto di Gesù”.
Ci viene insegnato, in fondo, che l’accesso alla pienezza dell’umano si realizza iscrivendo, magari con fatica, nel Volto di Cristo tutti i volti, con le loro cicatrici; e in ogni volto quello di Cristo, con le sue ferite.
Per questo, ho la convinzione che vivere la fraternità all’interno di ogni Gruppo e tra un Gruppo e l’altro sia una delle sfide più belle e più alte che il Convegno di Firenze ci chiede di affrontare. L’umano, allora, non sarà una parola scontata, ma sarà una “frontiera”.
Sarà un capire coi fatti che – come scrive la Lettera a Diogneto – “l’uomo proviene dall’intimo di Dio”; è “impastato” di Lui.
E, quando ama, diventa trasparenza di Dio; quando ignora o odia l’altro, diventa negazione di Dio. I Gruppi ecclesiali, insomma, in questo cammino verso Firenze, sono chiamati, io penso, a coniugare quotidianamente nei loro rapporti la “divina trascendenza” e la “prossimità d’amore”: è così che diventeranno protagonisti, felici e credibili, del “nuovo umanesimo in Cristo”, tanto annunciato, ma sempre in attesa di essere concretamente vissuto.
Gaetana Covelli