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Il capitolo sei del vangelo di Giovanni ci racconta di questa situazione e il brano presente nella XX domenica del tempo ordinario si sofferma sulla seconda difficoltà. Il brano non può essere staccato dal contesto ma trova in esso luce e da significato all’intero capitolo, ne è prova il versetto 52 che la liturgia ha tenuto presente, nel momento in cui ha diviso il capitolo, ripetendolo sia alla diciannovesima che alla ventesima domenica: “Io sono il pane vivente disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo”. Questo versetto è considerato dagli studiosi come il crinale del discorso tra il momento cristologico e quello eucaristico, perciò se non si comprende bene diventa difficile fare il passaggio tra quello che Gesù ha detto e la realtà che viviamo a livello sacramentale.
La composizione del versetto ruota attorno al termine pane, nella prima parte il pane è identificato con “Io sono”, nella seconda con “carne”, quindi la prima determinazione “vivente” fa riferimento alla seconda “Che io darò”. “Il pane che io darò” rimanda a due frasi di Gesù, a Filippo ha detto: “Dove compreremo perché costoro abbiano da mangiare?”; alla folla: “Datevi da fare per il cibo che dura per la vita eterna”. Rispetto a quanto Gesù ha detto nel versetto ci sono due novità: l’identificazione del pane con la carne e il la determinazione del processo donativo, per la vita del mondo. È chiaro che qui il termine “carne” indica tutto quello che è la realtà dell’uomo e richiama l’attenzione sulla personalità di Gesù solidale con la storia umana fragile ed esposta alla morte. Nelle due espressioni “disceso dal cielo” e “che i darò” si fa riferimento alla stessa realtà Gesù che si è incarnato e che si donerà nella sua morte. Ora se c’è un’identificazione tra pane vivente disceso dal cielo e la carne che io darò per la vita del mondo, ciò che rimane identica è l’azione che viene richiesta per avere la vita eterna, cioè mangiare.
L’obiezione dei Giudei riguarda proprio questo: “Come può costui darci la sua carne da mangiare?”, la modalità di un processo salvifico che dipende dal Padre e dal Figlio e che ora si presenta davanti a loro come una realtà e una identità, una modalità che non dipende da loro ma che è per loro. L’incomprensione della morte di Gesù come atto redentivo e vivificante di cui bisogna nutrirsi per avere la vita eterna. Gesù comprende non solo la domanda ma anche quello che c’è dietro la domanda, non ha bisogno di ripetere quello che ha già detto, il pane disceso dal cielo, la carne data per la vita del mondo rientrano nella dinamica del dono del Padre e del Figlio, la necessità ora è di far capire cosa accade se non accogli (mangi) questo dono. Questa realtà viene esplicita da Gesù attraverso alcune sentenze. Nella prima Gesù pone la condizione di ciò che deve essere assunto per avere la vita in se stessi, la seconda dichiarazione dice la stessa cosa in forma positiva e in prima persona, la terza motiva le precedenti e la quarta rimarca la comunione vitale con il Figlio promessa a chi mangia la carne e beve il sangue.
L’ultima sentenza stabilisce una relazione di analogia sorprendente tra il Padre e “Colui che mangia”, tale relazione non stabilisce né indica un’identità, la corrispondenza tra il Padre e il “Mangiante” è tra le due azione; “mandare” e “mangiare”. L’origine della vita è il Padre, la meta è l’uomo, la modalità come cammino della vita si esplica attraverso l’invio del Figlio che giustamente si presenta come cibo da mangiare.