Il Vangelo di oggi ci rivela ancora l’animo dell’evangelista, che come sappiamo scrive per gli ebrei e che quindi non esita a mettere tra le righe luminosi riferimenti alla storia del popolo d’Israele. Tutti gli elementi che aprono il racconto della Trasfigurazione, il salire sul monte, la grande sfolgorante luce, la nube con la sua ombra, la voce come tuono dal cielo, e infine la presenza di Mosè ed Elia non possono non riportarci a fatti contenuti nel Vecchio Testamento. Da qui tutta l’interpretazione spirituale data dagli esegeti a questi segni della teofania da Dio, ormai noti anche a noi cristiani, e che ci dicono la ricchezza ed unitarietà dell’intera storia della salvezza. Mi piace richiamarli sinteticamente. “Il monte” ci ricorda che se vogliamo conoscere Dio dobbiamo salire. Ogni salita comporta fatica e stanchezza ma poi è veramente entusiasmante la vista dall’alto. Solo Dio è “luce”, e senza di Lui c’è solo buio e tenebra. “La nube del cielo” poi ricorda che Dio non ci abbandona mai, ma ci guida sicuri, anche quando la strada si perde nel deserto della vita. Infine la presenza di “Mosè ed Elia” dice che “il nuovo testamento è nascosto nel vecchio e che il vecchio è svelato nel nuovo” (S. Agostino) e che quindi “tutte le promesse di Dio sono divenute sì in Gesù Cristo” (2Cor 1,18).
Il testo si apre comunque con un’indicazione interessante. I primi ad essere nominati come presenti all’evento sono Pietro Giacomo e Giovanni. Che differenza abissale tra Gesù, Mosè ed Elia da una parte e dall’altra questi tre poveri discepoli, letteralmente “presi” per essere protagonisti di un evento salvifico senza paragoni. Gli stessi saranno scelti da lì a poco per un altro momento decisivo nella vita di Gesù, la preghiera nell’orto degli ulivi. Dal Tabor al Golgota la distanza è breve. E qui un altro insegnamento: Gesù ci prende, ci chiama e ci sceglie non per concederci un privilegio ma per affidarci una missione, non per un’esperienza gloriosa e di successi, ma per una nostra personale “via crucis”, che comunque resterà sempre luminosa e salvifica. L’espressione “per crucem ad lucem” resta un caposaldo della spiritualità cristiana, ma in questo caso sembra un processo inverso “per lucem ad crucem”, quindi una sorta di preparazione che ci porti a contemplare la croce non come segno del castigo di Dio, ma come via privilegiata per l’universale salvezza.
“È bello per noi stare qui”. Non ci può sfuggire questa particolare esclamazione che Matteo pone sulle labbra dello sbalordito Pietro. Ma cos’è bello? Cos’è che rapisce la nostra attenzione e il nostro desiderio? Cos’è che ci fa star così bene tanto da non voler più interrompere quel momento o quell’evento che stiamo vivendo? Possiamo sinceramente affermare che per noi la cosa più bella è stare con Gesù? Magari aggiungendo persino un bel “per sempre”? Il vangelo ce lo dice con chiarezza: solo in Dio possiamo trovare felicità piena e duratura; tutto il resto, per quanto buono e giusto, è destinato a passare, lasciando in noi solo vuoto e solitudine.
Non possiamo concludere senza riflettere e accogliere l’ultima parola del vangelo odierno: “ascoltatelo”. Come viviamo questo invito del Padre? In fondo noi leggiamo e riflettiamo sulla Parola di Dio affinché essa diventi luce sul nostro cammino, strumento per crescere nelle fede. Chiediamoci dunque: chi e cosa ascoltiamo? Quanto tempo dedichiamo all’ascolto della Parola e quanto invece alle mille parole del mondo che ci circonda e che non dicono niente? Possiamo forse negare che per alcuni l’unica occasione per ascoltare una pagina del vangelo è solo la messa domenicale, ammesso che arriviamo per tempo e non ci distraiamo molto? Maria, Vergine dell’ascolto, rimane il modello di vita del vero discepolo, di chi è attento alla Parola del Signore, la custodisce meditandola nel cuore e la vive nella quotidianità della vita.