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Tra il limite e il possibile

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Sinceramente ho pensato che fosse una bella riflessione, ma la cosa che non mi tornava e che l’amore veniva presentato come qualcosa senza origine, come un’energia che alcuni possiedono e atri o non hanno o non vogliono usare, come se fosse chiuso in un contenitore che non aprono mai. Che cosa aggiungere a questa riflessione e a queste impressioni? Personalmente poco se non niente, ma la Parola di Dio tanto, in modo particolare quella che la liturgia della V domenica di Pasqua ci propone. Nel vangelo il termine amore non compare, poiché il brano per esigenze liturgiche è stato diviso e noi abbiamo la prima parte della pericope, Gesù, infatti, nel suo discorso prima di parlare dell’amore si concentra su qualcosa da cui l’amore non può prescindere: la relazione, o meglio del legame da cui dipendono tutte le altre relazioni, quella tra Dio e l’uomo. Prima di parlarci dell’amore Gesù ci indica i protagonisti dell’amore: Dio Padre, il figlio Gesù e l’uomo, il vignaiolo, la vite e i tralci.
Il vignaiolo è colui da cui dipende tutto, la vite, i tralci, il frutto, l’amore. È Lui che ha piantato la vite in mezzo a noi, perché innestati in lei possiamo portare frutto, è Lui che verifica se il tralcio porta frutto o meno, poi pota e taglia. La funzione del tralcio è di portare frutto, per questo è stato unito alla vite ed è questo il senso dell’espressione “Voi siete mondi, per la parola che vi ho annunciato”, attraverso la parola Gesù rende mondi e unisce a lui. Su questo legame si concentrano le parole di Gesù, un legame che il Padre ha voluto attraverso il Figlio, ma che possa continuare nella misura in cui noi come tralci rimaniamo uniti al Figlio, è permanere in quest’unione che permette al tralcio di portare frutto, di trovare e realizzare il senso dell’essere tralcio.
Ma ci può essere qualcosa o qualcuno che impedisce al tralcio di rimanere unito alla vite? Secondo quello che riferisce Gesù, la pretesa di pensare di poter portare frutto da soli. Ora questa pretesa è qualcosa che noi sperimentiamo nella nostra esistenza, sia nel cammino del singolo sia quello della società, come una mentalità acquisita dal momento in cui l’uomo ha decentrato Dio e il suo agire ponendo se stesso al centro dell’universo.
Questa pretesa, prima teorizzata a livello filosofico poi assunta in ambito politico e sociale, è stata automaticamente trasmessa ai singoli individui in un modo tale che oggi l’uomo se la trova cucita addosso senza aver ben capito la dinamica della trasmissione. Il singolo ne fa esperienza nel momento in cui si trova davanti a un problema, a una difficoltà, a una sofferenza e vorrebbe fare qualcosa ma è costretto a dichiararsi sconfitto dicendo: “Non posso far nulla”.
Davanti a questo limite si aprono due strade che portano entrambe alla compassione, ma mentre la prima caratterizza il compatire attraverso un sentimentalismo impotente e doloroso la seconda lo riempie di fede, di speranza, di possibilità, di quel poter chiedere all’Altro quello che non siamo capaci di fare: “Chiedete quel che volete e vi sarà dato”. Questa possibilità diventa concreta, secondo la prima lettera di san Giovanni, quando osserviamo i suoi comandamenti, ed è questo il suo comandamento: “Che crediamo nel nome del Figlio suo Gesù Cristo”. In questa seconda strada, nell’atto della richiesta l’uomo prende coscienza del legame particolare e fondamentale che ci deve essere per formulare tale richiesta: “Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi …” Ci sono quindi due modi di compatire, il primo, sofferente caratterizzato dalle parole “non posso far nulla”, il secondo pieno di fede e di speranza “Tutto posso in colui che mi da forza” (Fil 4,13). La differenza tra il limite e il possibile è l’unione permanente in Cristo Gesù.