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Tommaso vede e crede, lo scetticismo non serve

Essa è anche conosciuta come la «domenica di san Tommaso», come ama chiamarla la Chiesa ortodossa, perché in questo giorno viene letto il brano evangelico che parla dell’incredulità di Tommaso (Gv 20,26-29). Il Vangelo di oggi, infatti, ci presenta una delle pagine più belle e suggestive di Giovanni, poiché non possiamo non identificarci nell’immagine dell’apostolo passato alla storia come colui che «se non vede non crede». Il brano si apre con un’immagine cupa, si parla di porte chiuse, paura, ansia, preoccupazione, diffidenza, elementi che comunque non costituiscono un problema per il Risorto: Egli infatti non esita a rendersi presente in mezzo ai discepoli, a parlare, a mostrare loro mani e fianco, segni ineludibili della sua passione. In questa comunità bloccata, paralizzata, asfittica irrompe Gesù con la sua presenza discreta e rassicurante, e qui si presenta come colui che viene non per rivendicare diritti, sputare sentenze, minacciare punizioni ai vigliacchi traditori, ma per portare loro pace. «Pace a voi»: un saluto, un augurio a dir poco stravolgente, forse un po’ imbarazzante per i poveri apostoli che restano lì sconvolti, confusi, emozionati. La pace, il dono più grande, il bene più prezioso, è il mezzo attraverso il quale il Risorto intende riprendere un cammino interrotto, recuperare un’amicizia delusa, tradita, rinnegata. Ma uno dei Dodici manca all’appello, non c’era a quel primo incontro, avvenuto «la sera di quel giorno, il primo della settimana», era inspiegabilmente assente alla prima domenica cristiana. Un assente ingiustificato, che invece di scusarsi, pretende una seconda chance, esige di vedere e di toccare. Quanta sfacciataggine, alla quale il Signore corrisponde senza colpo ferire, «otto giorni dopo». Oggi ci sentiamo tutti un po’come Tommaso l’incredulo. Quante volte anche noi abbiamo esclamato «se non vedo non credo», dubitando dell’amore e della misericordia di Dio, ma anche del bene e della positività che alberga nel cuore di ogni fratello. Il racconto non specifica che Tommaso quel giorno mise la mano nel costato e toccò le ferite della crocifissione, nonostante tutta l’iconografia lo rappresenti così da sempre, ma ci riporta una meravigliosa professione di fede: «Mio Signore e mio Dio». Parola che anticamente ogni fedele cristiano sapeva di dover ripetere nel momento centrale della messa, quando il sacerdote alzava l’ostia dopo la consacrazione. Un segno bello della nostra fede nella presenza reale di Gesù nell’Eucaristia, che dovremmo ritornare a fare e a suggerire con semplicità e devozione. Ma guai a noi a concentrare di più l’attenzione sul personaggio Tommaso, sul suo atteggiamento di incredulità, perdendo di vista il vero protagonista di questa pagina e di tutto il Vangelo, il Signore Gesù, che ancora una volta si rivela maestro di vita, vero testimone di pazienza e di misericordia. Alla scuola del vero maestro impariamo a portare una ventata di aria nuova in tanti ambienti chiusi, un boccata di ossigeno in tante situazioni asfittiche, spente, senza più speranza. E infine prendiamoci quella bella beatitudine che è tutta per noi: «Beati coloro che pur senza aver visto crederanno». Difatti noi non abbiamo visto il Risorto, né abbiamo toccato con mano le sue piaghe, ma siamo qui e crediamo che Lui è veramente risorto, che Lui è vivo e vero, presente in ogni tempo e in ogni luogo, vincitore del peccato e della morte, datore di pace e di consolazione, anche al cuore degli increduli, di chi è disperato, scoraggiato, distrutto dagli affanni della vita. E apprezziamo sempre il dono di una fede semplice e operosa, di una fede che va contro ogni creduloneria e ingenuità, ma anche contro ogni forma di scetticismo e indifferenza, pronta cioè a credere che Gesù è veramente risorto e con Lui anche tutti quelli che si fidano di Lui e si affidano a Lui.