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Senso e futuro della pena: a Messina il Convegno Nazionale dei Magistrati

Mons. Giacomo D'Anna relaziona al Convegno Nazionale dei Magistrati

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Le tre giornate organizzate in numerose sessioni, tavole rotonde, gruppi di studi si è svolta in più sedi, ma specialmente presso l’Aula Magna dell’Istituto Teologico S. Tommaso, e ha visto il coinvolgimento di altrettanti Presidenti della Corte Costituzionale, Procuratori della Repubblica, Presidenti di Tribunali, Garanti dei diritti dei detenuti, Docenti di materie giuridiche provenienti dalle più prestigiose Università d’Italia, membri dell’Ordine degli Avvocati e naturalmente numerosi Magistrati di Sorveglianza che ne erano i primi destinatari.
Sintetizzare il vastissimo programma è praticamente impossibile, tanto meno i contenuti delle qualificate letionis magistralis dei relatori che si sono susseguiti.
Mi limiterò solo a fare un accenno alla tematica della prima giornata che aveva come titolo “Di fronte al problema della pena”.
Di essa sono stati scandagliati vari aspetti, quello filosofico, politico, antropologico, psicologico, sociologico e religioso.
A quest’ultimo ambito era stato dato come sottotitolo “Il sensus ecclesiae e la sollecitudo ominium ecclesiarum”.
I lavori sono stati coordinati dal Preside del san Tommaso Giuseppe Cassaro. A sviscerare l’argomento tre illustri relatori: il Prof. Nunzio Conte, che ha presento l’aspetto teologico con la relazione “Il carcerato icona di Cristo sofferente”, il Prof. Paolo Fichera che ha trattato il magistero evangelico e l’insegnamento di Papa Francesco e infine Mons. Domenico Sigalini, Vescovo di Palestrina che ha parlato della “Pastorale di comunità: dalla delega alla partecipazione corale”.
Al tavolo era stato invitato l’Ispettore Generale dei Cappellani d’Italia, Don Virgilio Balducchi, il quale impossibilitato a partecipare ha voluto delegare me perché potessi a nome suo e di tutti gli oltre duecento cappellani d’Italia parlare di pastorale carceraria.
Con timore e tremore ho accolto l’invito e ho partecipato con grande interesse ed entusiasmo all’importante e qualificata assemblea.
Ed è così che alla presenza di attentissimo e illustrissimo pubblico ho fatto il mio intervento.
Anche di questo mi permetto di farne una breve sintesi.
Ho iniziato parlando in generale di cos’è la pastorale carceraria e in specie della figura dei cappellani a servizio della popolazione detenuta.
Il mio dire è stato mosso, più che da una preparazione teologica, dall’esperienza diretta di chi vive la galera da oltre dieci anni.
Ho voluto sottolineare l’atteggiamento di diffidenza e di ambiguità dalla quale è permeata la suddetta pastorale.
Da una parte un senso di giustizialismo della serie, “metteteli in carcere e buttate a mare la chiave”, dall’altra l’eccesso opposto, un senso di buonismo che vorrebbe ad ogni costo concedere indulti e amnistie a tutti, con l’unico intento di risolvere l’annoso problema del sovraffollamento carcerario.
Il mio intervento si è soffermato poi sui tre aspetti fondamentali di cui costa la pastorale in questione: l’accoglienza dei primi giunti, l’accompagnamento dei detenuti, e il reinserimento degli stessi, una volta scontata la pena e rientrati nella società.
Del primo aspetto ho evidenziato le difficoltà emotive e psicologiche di chi giunge in carcere specialmente per il primo reato, spesso giovani che credono che a tutti possa succedere di essere arrestati meno che a loro.
Accanto a questo primo aspetto che può benissimo essere considerato a pieno titolo ministero della consolazione, c’è anche quello materiale, ossia il dover provvedere di fatto a fornire indumenti intimi e prodotti igienici, visto che quando uno viene arrestato non parte con un bel corredo in una bella valigia, ma per miracolo con quello che hanno addosso.
La seconda fase è l’accompagnamento che dura per tutto il tempo della detenzione e che viene svolto in piena collaborazione con l’area trattamentale dell’istituto di pena e che ricalca in qualche modo la vita di ogni comunità cristiana, di ogni parrocchia che ruota soprattutto su tre famosi pilastri che sono: la liturgia, la catechesi e la carità.
I primi due aspetti sono rappresentati da una serie di attività e iniziative svolte periodicamente, e in particolare nei tempi forti, che vanno dalle catechesi vere e proprie a tutte le celebrazioni di ogni specie e di ogni tipo.
Anche in questa fase non manca l’impegno di carità rivolto ai detenuti e alle loro famiglie in difficoltà economica, ai quali si provvede con sussidi in denaro, e provviste di indumenti e di viveri di prima necessità.
L’ultimo aspetto è quello più difficile ed è praticamente inesistente. Si tratta del reinserimento dei detenuti nella società una volta usciti dalle patrie galere.
Ma chi è disposto ad offrire un posto di lavoro o ad assumere un ex detenuto?
Chi desidera accogliere in casa una persona che ha avuto un passato alquanto dubbio e travagliato?
Da qui l’alta percentuale di recidivi che, non trovando lavoro, né inserimento in alcuna ambiente sociale, sono costretti a ripercorre la via dei guadagni facile, offrendo ancora una volta la loro disponibilità al mondo del malaffare, e ai traffici illeciti delle cosche mafiose.
Nella pastorale carceraria un cospicuo contributo e un fattivo aiuto è offerto dal mondo del volontariato che opera e si prodiga lodevolmente a favore di tutta la popolazione detenuta, in piena collaborazione con la Direzione e tutti gli altri operatori del mondo carcerario.
Ho concluso il mio intervento facendo riferimento al messaggio forte e ineludibile di Papa Francesco impostato tutto sul senso della tenerezza e della misericordia di Dio, da esprimere senza esitazione nei confronti di ogni essere umano, a quale va riconosciuta sempre e comunque la sua innata dignità e nel quale bisogna credere e dare fiducia.
Il Papa dei poveri ha, come tutti sappiamo, voluto indire un Giubileo della misericordia, e i carcerati hanno già da lui avuto una prima attenzione, chiedendo formalmente un amnistia e proclamando, per la prima volta nella storia della chiesa, la porta della cella del carcere porta santa.
“Il Santo Padre” – sono state queste le mie ultime parole – “amato da tutti, anche e soprattutto dai più lontani, sta facendo l’impossibile per rendere una Chiesa particolarmente simpatica, nel senso etimologico del termine, secondo la radice greca “sin pathos”, ossia una Chiesa che sa patire e gioire e che sa far prossimo e camminare vicina ad ogni uomo, specialmente quando vive il tempo tragico della povertà, della malattia, e perché no della detenzione”.
Mons. Giacomo D’Anna Cappellano Casa Circondariale di Reggio Calabria