Gesù per la seconda volta annuncia la sua Pasqua, che secondo una logica del tutto mondana contiene il fallimento più grande del divino, l’essere ridotto alla stregua degli uomini, anzi dei perdenti, incapaci di difendere se stessi e ciò che volevano costruire. Ciascuno di noi forse ha subito la sottrazione di un oggetto, di un incontro sfumato, di un sogno che non si realizza, ma qui c’è di più: Cristo sta parlando di una vita strappata senza motivo e con una cattiveria senza precedenti, perché sarà «consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno». Se proviamo ad interpretare con sapienza tale evento, cogliamo subito come esso sia troppo dirompente per non implicare un ruolo decisivo di Dio, perché un Padre non può starsene a guardare mentre il Figlio viene assassinato ingiustamente. Lo scandalo per molti è proprio il non agire di Dio a vantaggio di Gesù, ma il passivo divino che viene utilizzato dall’evangelista rivela che la morte rientra nel piano divino. A che titolo? Se subito dopo è annunciata la risurrezione, cioè il trionfo dell’amore, possiamo cogliere come la morte, accettata e offerta da Cristo per amore degli uomini, sia l’abbattimento di tutto ciò che soffoca l’amore, la vittoria del bene nonostante tutto il male che vorrebbe eliminarlo.
Tuttavia i discepoli sono lontani da questa prospettiva, così come noi che spesso non riusciamo ad alzare lo sguardo e preferiamo ripiegarlo su questioni entro cui ci muoviamo meglio e che pensiamo di controllare più agevolmente. Mentre Gesù, annunciando la sua Pasqua, implicitamente ha invitato tutti a lasciar andare ogni stoltezza in cui si perde l’animo umano, essi antepongono il loro “io” a Dio, discutendo «tra loro chi fosse più grande». Come si può? È come se uno avesse dinanzi agli occhi la medicina per guarire e invece di prenderla ingerisse il cibo più nocivo alla salute, la superbia, il desiderio di sopraffare il fratello. Gli uomini a volte scelgono di autodistruggersi pur di fare da sé; preferiscono fare a meno di Dio e degli altri pur di non rinunciare al bisogno di emergere.
Cristo però non si rassegna e, partendo da tale desiderio di primeggiare, ne sposta l’orientamento verso un oggetto nuovo per tanti, il servizio verso l’inetto e bisognoso di tutto, come era il bambino per quei tempi. Un bambino, immagine concreta dell’impotenza e della debolezza; un abbraccio, segno di quella tenerezza e attenzione che muove il cuore di Dio. Perché Dio non sta nell’indifferenza, ma nella dedizione, nella concretezza dei piccoli gesti. Non è vero che per essere grandi bisogna ergersi al di sopra degli altri, col rischio di calpestarli. Infatti ciò che davvero ha importanza, molto spesso sta sotto, ai piedi, alla base. Ci hanno sempre insegnato che per costruire una casa si parte dalle fondamenta. Infatti puoi avere un appartamento bellissimo, con pareti affrescate e mobili preziosi che farebbero invidia a chiunque, ma se alla base di tutto non ci stanno delle solide fondamenta, quello che oggi vedi domani sarà inevitabilmente distrutto e perso per sempre. Certo, le fondamenta nessuno le vede e quasi tutti si dimenticano della loro presenza, ma è grazie al loro servizio che tutto il resto continua a stare in piedi. Alla base vi è la piccolezza. E allora, cosa è più importante, ciò che sta sopra o ciò che sta alla base? Ciò che non si fa calpestare o ciò che è calpestabile e può reggere il peso e sostenere i passi degli altri? Va al cuore della vita chi accoglie un bambino, cioè «chi non ha niente da darti in cambio, se non per il legame e l’appartenenza a qualcuno» (Stefano Ripepi). Il bambino, il piccolo, è via al Padre. Se ti fai bambino, sei già tra le braccia del Padre!