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Se cerchi tuo padre, accogli il cibo del Figlio

Mi colpiscono due cose. La rapida successione di frasi lapidarie, che sembra non lasciare spazio ad un esito diverso dal ritorno in carne e ossa di questo padre amato, la cui mancanza provoca una struggente nostalgia. Noto anche la ripetizione del termine ‘casa’, perché è soprattutto quello il luogo in cui l’amore del padre si comunica fino a diventare cibo dell’anima. Questa ragazza ha bisogno di nutrirsi di suo padre, è consapevole che ogni altro alimento è solo un surrogato, e non trova pace perché sa bene che il suo desiderio non si realizzerà. Vorrei essere capace di argomentare come Gesù, che propone una verità più alta e lo fa pur sapendo di muoversi su un piano totalmente diverso da quello dei suoi interlocutori. Nonostante ciò, Egli spiega passo passo questa verità: prima l’enunciazione della sua identità («Io sono il pane vivo, disceso dal cielo»); poi il frutto della adesione a Lui («se uno mangia di questo pane vivrà in eterno»); infine l’estensione universale del dono («il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo»). Non è soltanto un procedere logico che vuole abilmente convincere, ma è il darsi della vita di Cristo all’uomo attraverso il sacramento del suo corpo; parole da far risuonare e cibo da masticare, perché un bambino, senza qualcuno che gli parli e gli dia da mangiare, muore. Anche a me piacerebbe comunicare alla mia interlocutrice quella promessa di vita che Gesù assicura e che posso almeno intuire, ma non so che cosa produrrà. Eppure Gesù non fa altro che ribadire il medesimo concetto: mangiare e bere di Lui per vivere. ‘Mangia, amica mia; bevi, sorella! Forse all’inizio sarà un pane amaro e un vino non inebriante; carne che sanguina come il tuo cuore di figlia lacerato dal dolore. Ma poi, chissà, se mangi e bevi, Lui ti nutrirà, ti darà forza per fare un pezzo di strada; se non mangi, non riuscirai a camminare e trascinerai la vita’. Mangiare e bere di Cristo per rimanere in Lui. Sta proprio qui il segreto dell’autentica rinascita, che consiste nel vivere per qualcuno: «io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me». Allora finalmente ho trovato una strada da indicare alla mia giovane amica: vivere per il Padre celeste, di cui è riflesso il padre terreno, cercare l’uno nell’altro.
Qui si pone un altro problema: cosa implica concretamente il ‘vivere per’? Anzitutto il non vivere più per sé, pensare prima alla gioia e al dolore altrui che ai propri; comprendere cosa è gradito all’altro e cercare di offrirglielo. Gesù ci offre la sua vita, ma non sempre noi la gradiamo. Non credo ci sia sventura peggiore per un uomo, eppure molti pensano che la fede sia una delle più grandi sventure, perché ti limita, condiziona, impedisce. Ma non siamo noi forse limiti, condizionamenti e impedimenti? Lo stesso cibo che ingeriamo non è sottoposto al limite della sua esauribilità, al condizionamento di una distribuzione iniqua, all’impedimento di una vera volontà di condivisione? La fede invece è vita dentro un’esistenza fragile, anzi vita che non muore. Oggi lo scotto che paghiamo noi cristiani è probabilmente quello di non aver saputo sempre annunciare con credibilità che la fede è vita e trasforma la vita. Se il cibo irrinunciabile di una ragazza è vedere il padre, come abbiamo presentato la Parola e l’Eucaristia? Come semplice rifugio dai colpi della vita (ma una persona non può trascorrere l’esistenza da rifugiata!) o come alimento di un cammino nuovo che condurrà senza alcun dubbio a ritrovare nel Padre celeste il padre terreno? Se oggi i giovani non sanno per che cosa spendere l’esistenza e possono sentirsi schiacciati dal pensiero di avere tutta la responsabilità della sua riuscita, sappiamo alleviare questo loro peso, presentando la dedizione a qualcuno come un modo originale e vincente di vivere? Interrogativi che ci porremo fino al termine dei nostri giorni, ma ci consola il fatto che fino alla fine non ci mancherà il pane eucaristico per non rimanere prigionieri dei dubbi e della morte. Da questa certezza la possibilità di vivere sempre nel rendimento di grazie, anche se per un momento la vita ti riserva pane amaro e vino non inebriante.