Ho bisogno di guardare fuori di me. Lo faccio e subito si dispiega dinanzi agli occhi quella che mi hanno sempre spiegato essere la ‘forma e misura’ del suo amore, la croce. Giovanni ce la presenta sospesa tra terra e cielo, in quella zona in cui la vita del Figlio si rivela come vita che incarna il fallimento umano eppure allo stesso tempo manifesta l’eccedenza dell’amore divino. Per l’evangelista, Gesù innalzato è in quel preciso istante il Cristo glorificato dal Padre perché col dono della sua vita è stato capace di trasformare una storia di morte in una storia d’amore. Per spiegare il dono di vita che ci viene dal sacrifico del Figlio, è evocato l’episodio dei serpenti che col loro veleno uccidevano gli ebrei nel deserto. Quando Mosè innalzava il bastone di bronzo, chi volgeva lo sguardo verso il serpente ivi raffigurato, era salvato da quei morsi mortali. Dietro questa immagine vi era l’idea arcaica che il serpente fosse pericoloso finché strisciava sulla terra, in quanto ne assorbiva tutta l’impurità, mentre perdeva tale potere di morte quando veniva meno il suo contatto col suolo. Gesù è colui che assorbe su di sé tutto l’odio del mondo e lo trasforma in amore; a lui bisogna guardare, così come «bisogna» che Egli sia innalzato. La croce infatti risponde alla necessità del Padre che vuole che gli uomini siano salvati per mezzo di essa; allo stesso tempo interpella sul versante umano la necessità della fede nel Figlio innalzato affinché l’uomo acceda alla salvezza. «Chiunque crede» riceverà il dono d’amore. Questa universalità del dono è commovente perché ti dice che ogni persona può rivolgersi a Gesù e trovare amore, sia che tale amore l’abbia scelto fin dall’inizio, sia che ci sia arrivata quasi per ripiego, dopo aver cercato invano altrove, poiché l’amore di Dio non rinfaccia nulla e si dona genuinamente a chi si volge ad esso anche al termine di tutti gli altri tentativi falliti. È necessaria però la fede, proprio perché Dio non costringe nessuno a guardare il suo amore, e ciascuno deve sentirsi libero di cercare altri amori. La differenza è che solo l’amore di Dio ti dona la vita eterna, la vita che non muore. Non si tratta unicamente della vita ultraterrena, ma una vita nell’Eterno, che ti rende capace di essere un tutt’uno con l’origine di tutte le forme e misure d’amore. La scelta sta tra l’accontentarsi di un amore che, se perde progressivamente contatto con la sorgente rischia di farti scivolare nelle tenebre, come accade qui a Nicodemo non ancora maturo nella fede, oppure tra il sentirsi collocati con Gesù sulla croce, là dove scaturisce l’amore incondizionato. Chi con coraggio decide di stare dove l’amore prende vita dalla morte, non solo non subirà alcuna condanna da Dio, ma avrà la gioia di vivere per sempre nella luce e di irradiare luce. Giovanni sta adottando lo stesso simbolismo del prologo per sottolineare la ricchezza del dono di Dio, ma mette in guardia dalla tenebra che può scendere sulla vita dell’uomo: la scelta deliberata e misteriosa dell’incredulità. Chi, nonostante abbia conosciuto l’opera di Cristo, sceglie di perseverare nelle «opere malvagie», dimostra in tal modo di non credere, che «odia la luce, e non viene alla luce». Infatti «il male vuole restare nascosto per non essere denunciato, come la menzogna per non essere sbugiardata» (Silvano Fausti); eppure quanta più gioia dà una vita in cui non devi essere guardingo, sospettoso di nessuno, ma semplicemente te stesso col patrimonio d’amore che hai accumulato. Una vita luminosa permette al credente che «appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio», sicché l’opera di Dio e quella dell’uomo si fondono in perfetta comunione di intenti e attuazioni. La verità della croce è luce e il nostro credere in Gesù è un incamminarsi verso questa luce, come ha fatto Gabriele Allegrino, il seminarista scomparso domenica, quando la luce del Figlio glorificato ha avvolto totalmente il suo corpo piagato dalla malattia e il suo animo desideroso di unirsi a quell’origine d’amore che la Chiesa acclama come il Vivente.