Professore per oltre quarant’anni di storia e filosofia nei licei statali, guarda con preoccupazione il mondo dell’istruzione: «La scuola in Italia è sempre stata troppo trascurata. Negli ultimi anni, poi, si è registrata una sua ulteriore svalutazione, che spiega gli atteggiamenti aggressivi e sprezzanti dei genitori nei confronti dei docenti. Il coronavirus non ha fatto che evidenziare questa situazione. Si è continuato a ripetere che era essenziale tenerla aperta, ma non si è fatto quasi nulla per realizzare questo obiettivo e quel poco che si è fatto è stato vanificato – almeno per le superiori – dal molto che non si è fatto».
Il distanziamento sociale ha influenzato le relazioni, torneremo “amici come prima”?
È vero, il virus ci ha costretti a inventare rapporti virtuali in sostituzione di quelli “in presenza” e questa è stata sicuramente una perdita. Peraltro si è trattato solo dell’accelerazione di un processo di crisi della fisicità già in corso da tempo in vari ambiti. Si pensi alla svalutazione della sessualità biologica nelle teorie del gender, allo sganciamento tra individualità biologica e persona nelle argomentazioni a favore dell’aborto e in quelle degli animalisti… Bisogna dire, però, che a monte c’è un problema di spessore e di significatività dei rapporti umani che non si risolve soltanto tornando alla situazione precedente la pandemia. Non basta recuperare la “presenza fisica”, bisogna, in molti casi, approfittare di questo ritorno per darle un maggiore contenuto di autentico scambio umano.
La Didattica a distanza è un ripiego o una risorsa?
Entrambe le cose. Da un lato, sicuramente, non può sostituire quella “in presenza”, come, in generale, le relazioni virtuali non possono sostituire quelle in cui ci si trova accomunati da uno spazio fisico. Perché l’educazione è una relazione, prima che la trasmissione di conoscenze, e se la relazione si indebolisce, se si fa meno impegnativa, è più difficile al ragazzo seguire l’attività del docente ed evitare le distrazioni (cosa succede, in realtà, dietro l’icona dello studente sullo schermo del computer?). Ma il virtuale apre anche spazi inediti che, se non la sostituiscono, possono però integrare e ampliare la didattica “in presenza”. Perciò, quando potremo tornare in pieno a quest’ultima, bisogna saper valorizzare quello che si è imparato in questi mesi sulle potenzialità del lavoro a distanza.
Come si immagina la scuola in questa fase di uscita dal Covid?
Non sono molto ottimista, perché vedo che le continue assicurazioni sull’impegno verso la scuola, sia del governo che degli enti locali, non vengono accompagnate da reali sforzi organizzativi e investimento di risorse. E poiché il vaccino farà sentire la sua influenza positiva solo a primavera, ci si continuerà ad arrangiare – almeno alle superiori – con forme miste di didattica a distanza e “in presenza”. Che non è l’ideale.
Che consigli pensa di poter dare ai genitori?
La pandemia ha creato, nelle famiglie, una prossimità fisica che non si vedeva da tempo. Questo ha prodotto effetti diversi. Ci sono state coppie che hanno scoperto di non aver più niente in comune e altre che si sono trovate finalmente, senza più la fretta e la distrazione abituali, a comunicare veramente. Lo stesso è accaduto tra genitori e figli. In ogni caso i genitori hanno finalmente potuto vivere con i loro ragazzi momenti significativi, aiutandoli nello studio, sostenendoli nelle difficoltà di questi giorni… Personalmente sono sempre stato convinto che la migliore strategia educativa, da parte della madre e del padre, è di trovare il tempo di ascoltare i loro figli. Meno regali, meno permessi dati al buio, e più disponibilità a condividere i loro problemiquotidiani.
Anche le parrocchie hanno subito gli effetti della Pandemia…
Purtroppo le parrocchie, già prima della pandemia, non erano dei luoghi di ritrovo se non per la celebrazione dei riti. La vita quotidiana della gente ne rimaneva fuori. Il coronavirus, rendendo più difficile la partecipazione alle messe, ci ha costretti a interrogarci su significato del nostro essere membri della comunità parrocchiale, che certo già prima non avrebbe dovuto ridursi all’eucaristia domenicale. Ora che non c’è più quella – almeno per molti – che significa essere cattolici “praticanti”? Che significa “praticare” il proprio cristianesimo?
Parliamo del futuro. Tornerà tutto come prima?
Ma noi vogliamo che tutto sia come prima? Non dobbiamo sperare che il trauma della pandemia cambi qualcosa nel nostro approccio alla realtà, alla vita?
Come potremo favorire la ripresa educativa?
Evitando che le cose tornino come prima. Soprattutto per le nostre comunità ecclesiali, impegnarsi nella formazione implicherebbe una svolta radicale non rispetto al tempo della pandemia, ma a quello che facevano prima: messe, prime comunioni, matrimoni… La parrocchia, oltre a celebrare riti, dovrebbe essere una scuola di preghiera, di pensiero, di vita comunitaria. Ma, molto spesso, non era questo. Creando un vuoto, un’interruzione rispetto alla prassi unilateralmente ritualistiche del passato, il coronavirus forse può essere un’occasione per ricominciare da capo, inaugurando stili nuovi.