Tuttavia, ieri come oggi, non c’è più sordo di chi non vuol sentire. Il primo elemento da sottolineare è che Gesù parla di una sola pianta, di una sola vite e dunque di una sola linfa vitale: viene così dichiarato il primato della comunione con Lui e l’invito a vivere tale relazione rimanendo in Lui. Rimanere è un verbo che non dice staticità, inerzia, ma dinamismo, operosità, termini che richiedono impegno ed energia. Soltanto rimando in Lui possiamo portare frutti: “in questo è glorificato il Padre mio, che portiate molto frutto e diventate miei discepoli”. Portare frutto, ecco il nostro unico grande obiettivo, perché il Signore non vuole piante ornamentali con rami frondosi ma senza frutti. Non porteremo mai frutto se ci stacchiamo da Lui, se ci allontaniamo dalla nostra pianta, se disconosciamo e snobbiamo l’appartenenza alla nostra amata vite. Comprendiamo allora anche il senso della nostra vera libertà, che non è andare raminghi dove ci piace, ma restare aggrappati alla nostra fonte, così come un bambino sta aggrappato al collo della mamma. Ciò non comporta dipendenza e monotonia, ma slancio ed entusiasmo o, per usare un termine oggi assai di moda, resilienza, che traduce la nostra voglia di rialzarci, di ricominciare, di non fermarci mai passivi e infecondi.
E poi cosa ci può essere di più bello della consapevolezza che Dio è il nostro agricoltore? È Lui ad agire e produrre; noi siamo chiamati ad essere semplicemente suoi collaboratori. Spesso dobbiamo riconoscere che ci sfugge che la vigna è sua, non nostra, con la conseguenza di pensare che tutto dipende da noi, dalla nostra efficienza, dalle nostre capacità di organizzare piani pastorali, che poi lasciano il tempo che trovano. Eppure lui ci aveva avvisato: “senza di me non potete far nulla”. Vogliamo fare da soli, di testa nostra, e poi quando le cose non vanno e i raccolti tardano ad arrivare pensiamo che la colpa è di Dio, che non ci aiuta e che non collabora con noi. Certo, l’agricoltore a volte deve operare anche delle potature. Ogni taglio produce inevitabilmente dolore, ma a volte l’amputazione di un arto salva la vita. I tagli non piacciono a nessuno, neanche all’agricoltore che è costretto a farli, ma egli sa che da essi dipende il buon raccolto. Se siamo onesti e ci pensiamo bene, quanti tagli sarebbero necessari nella nostra vita, quante amputazioni dovremmo realizzare per liberarci da tutte le nostre invidie e gelosie, da tutte le maldicenze e negatività che infettano e minacciano la nostra bella pianta, compromettendone anche il buon raccolto, nonostante la bravura e l’efficienza dell’agricoltore.
Alla fine ascoltiamo la promessa di Gesù: “chiedete quello che volete e vi sarà fatto”, ma sempre alle solite condizioni: “se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi”. È così difficile? È così impossibile farlo? Si tratta solo di un po’ di buona volontà, cui diamo il nome semplicemente di fede, che smuove le montagne e che ci ottiene al di là e al di sopra di quanto osiamo chiedere e desiderare dal buon Dio. È interessante che l’ultimo termine del vangelo odierno sia discepoli, ad evidenziare come l’unico frutto che dà gloria al Padre sia quello che scaturisce dalla nostra sequela del Figlio: ogni opera generata al di fuori di questa relazione col Maestro prima o poi si rivela come sterile, anche se all’inizio potrebbe apparire feconda. Affrettiamoci dunque a seguire Gesù rimanendo in Lui: ogni ritardo nel cammino di discepoli è una rinuncia alla vita, uno spazio concesso alla sterilità e quindi alla morte.