Una vera e propria “avventura” nel senso etimologico del termine, che richiama non tanto il riferimento a qualcosa di inaspettato, a un caso fortuito, a un avvenimento straordinario, quanto il senso di ciò che avverrà, di quello che deve avvenire.
Per noi cristiani si tratta di considerare sotto una nuova luce persino ciò che per rappresenta il limite assoluto, il negativo per eccellenza, e che racchiudiamo in parole forti come morte e fine del mondo. È la nuova luce della speranza. Papa Francesco non si stanca di ripeterlo quando ci ricorda che in spagnolo il verbo “aspettare” si traduce con “esperar”, che richiama appunto lo sperare in qualcuno, in qualcosa. Allora anche la traiettoria fondamentale cambia perché non siamo più costretti a considerare e sottolineare il senso della fine, quanto del fine ultimo. Mi sembra una bella e sostanziale differenza, che costituisce una vera e propria avventura per la Chiesa dei nostri giorni, chiamata a confrontarsi con fenomeni sempre più poderosi come la scristianizzazione dilagante.
Dopo il discorso apocalittico che preannunciava la demolizione del tempo, la distruzione di Gerusalemme e la fine del mondo, gli interlocutori rivolgono a Gesù domande precise circa i tempi e i segni che le accompagneranno, come leggiamo nel vangelo odierno: “Maestro, quando dunque accadranno queste cose e quale sarà il segno, quando esse staranno per accadere?”. La sua risposta, se da una parte può sembrare causa di paura e ansia circa le catastrofi che verranno, nello stesso tempo non esita a mettere nel cuore dei discepoli serenità e fiducia: “Neppure un capello del vostro capo andrà perduto”, quasi a dire che non è importante perderci dietro a elucubrazioni mentali e pronostici insignificanti circa tempi e modi, quanto puntare sul senso vero della vita presente, che per quanto lunga e soddisfacente, è destinata comunque a concludersi. Da qui la necessità di orientare tutto sulle cose eterne, quelle che non avranno mai fine, sapendo che la nostra patria è nel cielo, che questa vita terrena è solo l’anticamera della vita eterna, e che dunque non conta la quantità, ma la qualità della nostra vita. È importante pertanto vivere bene i giorni che il Signore ci dona, sforzandoci di non perdere mai “l’occasione di dare testimonianza”, soprattutto nelle difficoltà e nelle prove che non mancano neanche ai nostri giorni e che sono rappresentate dalle guerre, dai terremoti e dalle diverse calamità del mondo. È in questi casi che come cristiani siamo chiamati a testimoniare l’amore vero e solidale verso tutti, con una carità sincera e un servizio operoso, che ci rende così “sale della terra e luce del mondo”.
L’ultima frase non ci può sfuggire: “Con la vostra perseveranza salverete la vostra vita”. Ma cosa si intende con il termine perseveranza, oggi così desueto e antiquato? Esso è sinonimo di assiduità, costanza e tenacia, virtù che sembrano scomparire non solo dal nostro vocabolario, ma persino dalla nostra pratica cristiana. Se Gesù fosse vissuto ai nostri giorni avrebbe forse usato anche Lui un termine oggi noto a tutti, che abbiamo adottato in particolare nel periodo post Covid: “resilienza”, ossia la capacità di affrontare e superare un evento traumatico o un periodo di difficoltà. Quel che conta è comunque non perdere mai l’orizzonte cristiano che è essenzialmente legato non tanto al ristabilimento della pace e serenità terrena, quanto alla salvezza eterna, quella che Gesù Cristo ci ha acquistato con il suo sangue e che noi potremo certamente conseguire se sapremo custodire la fedeltà e l’amore per Lui, unico e sommo bene.