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Quando il cardinale Siri ricordava monsignor Lanza: fede, coraggio e impegno per la rinascita del Sud

Nel ricordo del 75° anniversario della morte di monsignor Antonio Lanza, il Movimento ecclesiale di impegno culturale (Meic), Cec, Istituto Lanza di Reggio Calabria e Fuci, promuovono due eventi in programma a giugno. Un’occasione per riscoprire la figura di un pastore che ha segnato la storia della Chiesa meridionale e per ripercorrere le sue intuizioni ancora attuali.

Due appuntamenti nel segno della memoria e della formazione

La delegazione regionale del Meic (Movimento ecclesiale di impegno culturale), in collaborazione con la Conferenza episcopale calabra, l’Istituto superiore di formazione politico-sociale “monsignor A. Lanza” e la Fuci (Federazione universitaria cattolici italiani), ha organizzato due importanti momenti commemorativi nel mese di giugno, in occasione del 75° anniversario della morte dell’arcivescovo monsignor Antonio Lanza.

Il primo evento sarà un convegno di studi, in programma il 21 giugno a Reggio Calabria, dal titolo: «monsignor Antonio Lanza tra questione meridionale e formazione del laicato». L’incontro sarà dedicato all’approfondimento del pensiero e dell’opera del presule, con particolare attenzione alla sua visione culturale e pastorale rivolta al Mezzogiorno e al ruolo dei laici nella Chiesa.

Il secondo appuntamento si terrà il 23 giugno a Cosenza, con una concelebrazione eucaristica in suffragio di monsignor Lanza, presieduta da autorità ecclesiastiche e aperta alla partecipazione dei fedeli.

Tre articoli storici per riscoprire il presule calabrese

In preparazione ai due eventi, il settimanale propone ai lettori la ripubblicazione mensile di tre articoli storici dedicati a monsignor Antonio Lanza, originariamente pubblicati nel 1960 in occasione dell’inaugurazione del monumento funebre a lui dedicato.

Il primo contributo che si propone alla lettura è il discorso del cardinale Giuseppe Siri, allora arcivescovo di Genova e presidente della Conferenza episcopale italiana, tenuto in occasione della cerimonia di inaugurazione del sepolcro. Il testo fu pubblicato su un numero speciale di Avvenire di Calabria nel 1960 e viene ora riproposto integralmente.

Un tributo commosso e profondo alla statura morale e pastorale dell’arcivescovo Antonio Lanza: il discorso del cardinale Giuseppe Siri

Il cardinale Giuseppe Siri, all’epoca arcivescovo di Genova e presidente della Conferenza episcopale italiana, intervenne nel 1960 con un discorso denso di memoria, gratitudine e lucida analisi spirituale e culturale, durante la cerimonia di inaugurazione del monumento sepolcrale dedicato a monsignor Antonio Lanza, realizzato dallo scultore Alessandro Monteleone.

Il cardinale Siri nel Duomo di Reggio Calabria all’inaugurazione del monumento sepolcrale di monsignor Lanza: archivio Avvenire di Calabria (1960)

Nel testo, riportato integralmente da Avvenire di Calabria (8 ottobre 1960), il cardinale tratteggia con vivezza la figura di monsignor Lanza, dieci anni dopo la sua morte, esaltandone la statura spirituale, l’intelligenza vivace e l’azione pastorale coraggiosa durante il difficile periodo bellico.

L’articolo integrale di Avvenire di Calabria (8 ottobre 1960)

Dopo lo scoprimento del nuovo monumentale sepolcro, insigne opera d’arte dello scultore Alessandro Monteleone, S. Em. il Cardinale Siri, tra la più religiosa e commossa attenzione ha pronunciato il discorso che qui di seguito siamo lieti di poter trascrivere:

A dieci anni dalla sua lacrimata morte noi ci volgiamo ancora con sentimento profondo verso la venerata figura di Mons. Antonio Lanza, Arcivescovo di Reggio Calabria. Dieci anni sono utili per vedere meglio. La prospettiva di lontananza scava i tratti fisionomici e quelli dell’anima, dà ad essi maggior rilievo, permette di cogliere meglio l’essenziale. Quando si tratta di uomini egregi, niente di fatto comune, c’è in questo ritorno delle commemorazioni fatte a distanze così lo credo – il determinante motivo di finir di capire, di capire ancora. La luce del tramonto scava tratti che l’alba non stende: nel gioco dei più si fa meglio vedere un uomo.

Ricordate la figura di Mons. Lanza. Aveva il suo volto dei lineamenti quadrati marcati ed armoniosi insieme, espressivi nel garbo dei contorni; quando si chiudevano, d’una volontà precisa, tenace, pacata. Se ne intuiva la fermezza della intelligenza che sa, che è completa, che cerca, che scruta. Quel suo modo riflessivo di entrare nel discorso, come se avesse letto sulla carta un impeccabile teorema, poi il sopravvenire di quel sorriso sincero e limpido che gli permetteva di ispirare una fiducia. Quando quel sorriso sopravveniva era un po’ come se il Professore, il Promotore di Giustizia si fosse ritirato per cedere il posto all’amico e al pastore. Ecco perché, a voi soprattutto che lo avete conosciuto, chiedo di cominciare a ricordare la prima cosa che vi apparve, allorché tra incubi di guerra giunse qui, tra le rovine il 10 agosto 1943.

Lo rivedo molti anni dopo ai Corsi di Camaldoli. La stessa figura fatta più carica di pensiero e maggiormente concentrata e profonda. Lassù, dopo una mia lezione, si alzò per proporre un punto da dilucidare e lo fece citando fedelmente San Tommaso, con quel dito alzato che era in lui il segno esterno di una precisione e di un ritmo mentale perfettamente scandito. Fu l’unica volta in cui dopo una mia lezione ebbi la impressione di dare un esame davanti ad un grande.

Lo stesso modo di modulare la voce tradiva un controllo di discrezione per non guastare l’ordine mentale e per sottolineare, con certe sue particolari inflessioni, l’articolarsi di un ragionamento. Ci ritrovammo per alcuni anni allo stesso tavolo della Commissione Episcopale per l’Alta Direzione della Azione Cattolica. Sedeva in faccia a me. Quando c’era una questione giuridica o pratica piuttosto intricata, lo naturalmente pensavo, ma poi cercavo di capire le reazioni di quella faccia sua da che cosa potesse apportare o orientarsi.

Se parlava, in genere nessuno doveva parlare dopo di lui. Questo per dire, rivelatore di un’anima sempre colma e mai sbadata, per molti di quelli che mi ascoltano e che lo hanno conosciuto è legata a composizioni terribili di una guerra sopra i cui orrori egli stagliò eroicamente, è legata a composizioni di pace serena e attivissima quando in Reggio venne il periodo della resurrezione, il periodo per lui, ahimè, troppo breve!

A quelli che non lo hanno conosciuto allora voglio rendere testimonianza: il sembiante di Mons. Antonio Lanza rivelava da solo in lui l’uomo per nulla comune.
La precocità colla quale negli studi arrivò ai diversi traguardi in anticipo e giovanissimo eccelse, non era che una componente di questa sua figura.
L’ultima immagine sua mi rimase: l’ho davanti, la sera del 17 Giugno 1950 nella sala del Consiglio dell’Azione Cattolica, ci abbracciammo nel salutarci e mi parve vigile al senso alto della vita del suo trapasso.

Dal sembiante sento di dover passare a considerare altro. Si tratta della sua intelligenza. Gli incarichi che ebbe Mons. Lanza, prima dello episcopato a Reggio indicano l’iter di un uomo di rara intelligenza. Appena ordinato viene mandato ad insegnare Teologia Morale e Diritto Canonico nel Seminario Regionale di Catanzaro. Roma lo chiamò dopo pochi anni ad insegnare Teologia morale all’Ateneo del Laterano. Presto fu promotore di giustizia alla Suprema Sacra Congregazione del Santo Uffizio, Esaminatore prosindonale del Clero Romano. Si pensi che dopo aver per tempo non piccolo fatte tutte queste ed altre cose si raggiunse l’episcopato a trentotto anni. Ma tutte queste cose si possono fare in tanti modi.

Fu e rimase un Professore classico. Era lucido, chiaro, ordinato ed essenziale. Ma all’essenziale arrivava attraverso una singolarissima e prevalente abilità di analisi. Questa lo dimostrava padrone nel regno dove si entra solo col pensiero e dove è difficilmente e sgangheratamente entrato colla sola immaginazione o col sentimento. Quando lo sentii parlare in pubblico mi diede sempre il senso di questa straordinaria padronanza, sicurezza della verità.

Nelle risposte, che dava ai casi proposti, era talvolta da domandarsi se questo uomo fosse capace di avere dubbi profondi sulle questioni, tanto i concetti e il nucleo di quelle si presentavano naturalmente e rapidamente, magari sommariamente sotto il suo sguardo scrutatore. Qui lo rimpiangono tanto e fu per questo che quando morì dissi ad amici, con convinzione profonda, che si era spenta una grande luce nella Chiesa. Era eruditissimo, conosceva tutto, che potesse riguardare le materie da lui insegnate o anche solo sfiorate, tutto aveva assimilato, ma mai gli era occorso da tanta erudizione di trarre quel stemperamento nell’opinabile e nell’incerto, che caratterizza subito molti uomini non forti: nell’intelligenza e non padroni della verità al paro di lui. Se non fosse lui l’oggetto stesso del mio dire sarei a questo punto tentato di soffermarmi in un discorso grave e non scevro di preoccupazioni. Quella sua vigoria mi parve sempre una difesa per molti.

Materialmente parlando, frutti della sua opera di studioso furono Monografie e soprattutto la Teologia Morale, che rielaborata per i Laici comparve nel primo volume a poca distanza dalla sua morte. Come moralista e giurista oltre quanto ho detto ebbe altre caratteristiche. Concepiva la Teologia Morale non come espressiva di cauti confini tra il bene ed il male, ma — e ben più — come positiva costruzione della vita cristiana nella ascetica ed oltre nella mistica. Qui si riconosceva il migliore alunno del Vermeersch. In più la Teologia morale egli la allargò a tutte le considerazioni e questioni che la moderna esperienza imponeva.

In questa opera magistrale fu diritto fermo e sicuro, come la sua figura. Coloro che conoscono il pericolo dei complessi di inferiorità, facendo di dubbi e di sfasamenti, a quelli che sentono debolezze per influssi dubbi di ideologie superate o tuttora viventi, sono stimati quegli uomini, anche se vivi e ascesi, per me vecchio insegnante di Teologia, una delle ragioni per le quali ho pianto che questo astro si sia spento.

Quando nella primavera di quel terribile 1943 si seppe che il Prof. Lanza era stato nominato Arcivescovo di Reggio Calabria, in successione del compianto Mons. Montalbetti, più d’uno si chiese se quel professore, tipicamente e vigorosamente, vorrei dire matematicamente professore, era l’uomo che in­dossasse la figura del Vescovo e del Pastore. Ecco come la inquadrò e per dirlo debbo ora discorrere dell’animo suo virile, del cuore suo grande e del coraggio col quale ascese sulla cattedra arcivescovile di Reggio.

Il 29 giugno 1943 in Sant’Ignazio veniva consacrato Vescovo. C’era ad assistere tutta quella Roma che ha un fiuto speciale nell’intuire gli uomini non comuni e dai quali si aspetta un non comune cammino. Era tempo caldo in tutti i sensi. Gli alleati erano sbarcati in Sicilia e la linea del fuoco si delineava ormai a Reggio bombardata, scarnificata e pressoché abbandonata. Se lo sbarco sul continente si fosse verificato prima che il nuovo Arcivescovo raggiungesse la martoriata città Egli non avrebbe più potuto entrare nella sua sede.

Mons. Lanza abitava allora al Santo Ufficio. Il posto era severo, — non c’è dubbio — ma tranquillo. Con Lui c’era sua madre. Sarebbe stato umano che il giovane prelato avesse fatta opposizione e non avesse accettato una destinazione che lo gettava in bocca al lupo. Nulla permetteva di prevedere come sarebbe andata a finire. Laggiù, anzi quaggiù — era rovina ed incubo di morte; non avrebbe trovato ad attenderlo che giorni di dolori ed invocazioni di aiuto. Egli si sarebbe consegnato ad un contesto simile, e non si dimentichino le ipotesi di fare la fine dell’Antecessore era tutt’altro che infondata, siccome difatti si vide qualche mese addietro. Egli non accettava un arcivescovado illustre, egli accettava un calvario ed un martirio. Nessuna sfumatura umana interveniva ad addolcire i duri termini di questo bilancio.

I termini erano soltanto duri e non davano alcuna garanzia di respiro. In più la Santa Sede faceva capire che desiderava l’Arcivescovo fosse presto al suo posto di combattimento. Mons. Lanza misurò bene tutto questo e serenamente, pacatamente accettò. Per misurare la portata di quella volontà bisogna seguirlo nel viaggio verso Reggio. A distanza di un mese dalla Consacrazione, in seguito ad una segnalazione di inasprimento della guerra, decise quasi improvvisamente di partire e questo fu da Roma il 1 Agosto 1943. Raggiungere l’estrema punta della Calabria era una incognita e probabilmente una impresa senza esito. Difatti si diresse dalla parte opposta e andò a Bari, dove si gli permise di dover fare esperimenti i bombardamenti lungo la costa, di arrivare a pregare il venerato sepolcro di San Nicola.

Attese, incertezze dei mezzi di trasporto e finalmente la ripartenza verso Taranto e Metaponto. Altre incertezze della ferrovia ed il viaggio poté prolungarsi fino a Sibari. Come Dio volle un treno ripartì ed infilò la penisola di Calabria. Fu allora che tra le varie stazioni apparve anche quella di Castiglione Cosentino, paese di nascita di Mons. Lanza. Dal finestrino contemplò a lungo con infinita dolcezza e mestizia nell’animo, il paese dei dolci ricordi infantili. Eccola Cosenza. Qui la sosta si allunga e la incertezza del raggiungimento della meta s’accrebbe, perché per proseguire si sommava lo stato delle strade, la possibile inefficienza dei raccordi e l’alea di permessi di transito d’ingresso nella zona di operazioni. Anche qui il tormento ebbe fine con una partenza in macchina verso l’ignoto. Venne così all’incontro col Generale Ferrari comandante della zona ed il permesso fu dato. La prosecuzione del viaggio ebbe i contorni di una anabasi angosciosa. L’autista domandava di tornare indietro a riparare a San Marco. No: avanti. Ovunque tutto sconvolto, le strade interrotte da buche, scomparse le tracce della ordinaria e civile convivenza, una risonanza paurosa ed un rischio che ansava sempre vicino. Avanti. E così arrivava a Mileto. Il venerando Vescovo Mons. Albera trasalì quando lo vede arrivare e non credé ai suoi occhi. Rimane suo ospite fino alla mattina del giorno dopo, il tempo necessario per far arrivare la notizia a Reggio ed assicurarsi, colla convocazione, una sufficiente presenza del Capitolo allo scopo di poter presentare al medesimo le Bolle Pontificie e prendere così validamente possesso della Sede.

Mons. Lanza, gran canonista era particolarmente preoccupato di questo punto giuridico al quale era legata la possibilità di cominciare ad agire come vescovo. Lontano si sentivano i cannoneggiamenti, sulla testa si avvertiva il carosello degli aerei. Nella prima mattina del 9 agosto l’Arcivescovo era su quella sconvolta pista che si sarebbe dovuta chiamare una strada. Le zaffate d’aria calda intremolite per i cannoneggiamenti più lontani ripetevano il consiglio di evitare il forse inutile sbaraglio. Alla sera alle nove, tante ore occorsero, arrivò a Reggio. Al Seminario Regionale trovò l’indomito rettore rimasto solo con due fratelli laici a far guardia a quello che che non poteva sostanza proteggere.

Il domani 10 agosto, festa di San Lorenzo, l’Arcivescovo entrava nella sua cattedrale. Per entrarvi aveva dovuto attraversare una piazza letteralmente sconvolta, inoltrarsi sotto un tetto in più punti schiantato ed aveva trovato ad attenderlo quattro canonici, il Commissario prefettizio e una trentina di persone. Era poca brigata davvero, ma il contorno era fatto dalla tragica scena sulla quale si apprestava alle otto di mattina a rombare ancora il cannone e dal coraggio col quale questo uomo sereno e tranquillo, senza esitazioni e paure, con una pacatezza contagiosa per quelli che gli stavano attorno, si levò altissimo sulla cattedra dei suoi Antecessori. Questo tratto della vita di Mons. Lanza ho dovuto narrarlo per disteso, perché non costituisce, ma rivela la statura e la tempra dell’uomo. L’eroica volontà, più grande della dissuasione fatta da una morte avanzante, diceva a Reggio di tra le sue rovine quale fosse l’amore del suo Arcivescovo.
I giorni che seguirono non furono meno vari e neppure migliori.

L’8 novembre, per quel non volersi assolutamente togliere dal pericolo, per quel aggiudicare a sé l’ultimo posto nell’agio e nella sicurezza fisica, venne anche Lui colpito al tallone. Non fu poca cosa anche se non si trattava di organi vitali, perché le condizioni si fecero serie, dovette venire ricoverato bene o male in ospedale ed anche là volle che prima si curassero gli altri. Intorno a lui presto si era attenuato il deserto; aveva richiamato e ricostituito una assistenza, aveva atteso ad un piano di organizzazione immediata e di fortuna e tutto cominciò a rotare intorno a lui. Anche nella bufera qualcuno riusciva ora a scorgerlo: nel fine di quel 1943, lui ancor impedito di parteciparvi per la ferita, ma a quel luogo dall’Eremo ove lo aveva portato la processione con la venerata immagine della Madonna della Consolazione.

La guerra si era intanto spostata, gli alleati erano sul continente e Reggio ritornava ad essere una retrovia, ma non per questo erano finiti i pericoli e le strettezze. Venne la pace e con lo stesso ritmo l’Arcivescovo proseguì a ricostruire tutto, a completare quello che mancava, a dare a tutto l’impronta di quella vita precisa, metodica, ragionata ed efficiente che era caratteristica della sua persona.

Moltissimi di voi sono stati spettatori e sanno come da quel momento l’Arcivescovo, capo della regione conciliare di Calabria fu il paladino della sua terra. Io ricordo che quando ci incontravamo a Roma per le sedute della Commissione Episcopale aveva invariabilmente qualche impresa da portare a termine o per Reggio o per la Calabria. Era tale il modo con cui si applicava a queste imprese che non poteva a meno di parlarne anche in seduta: per me era allora commovente e rimarrà indimenticabile guardare con cui si immedesimava colle fortune, le speranze e le vicende della sua terra. Il coraggio che lo aveva portato a raggiungere in circostanze tragiche la sua sede aveva cambiate circostanze al tutto esterne ma dava sempre lo stesso dono di volontà inflessibile, decisa, perentoria e concludente.

In questo quadro rifluìse allora quello che intelligenza, cultura e decisione potevano dare in Mons. Lanza. Fu una luce brillantissima nell’orientamento sociale del sud d’Italia. Questa sua caratteristica ha ragione di essere qui ricordata oggi, anche perché ho ben motivo di credere che, ove la morte lo avesse risparmiato, sarebbe toccato a Lui raccogliere la successione del venerato Mons. Bernareggi nella Presidenza di queste settimane sociali. E la cosa sarebbe stata di una ragione evidente. La pastorale collettiva sulla dottrina sociale della Chiesa e le esigenze dei tempi, che venne decisa il 12 dicembre 1947 dallo Episcopato Calabro, ma che, stesa da lui, divenne un documento di alta preveggenza e di orientamento non solo per i problemi del Mezzogiorno ai quali era particolarmente applicata, ma in campo nazionale. Intanto la sua presenza a Corsi e le sue lezioni in Sicilia e sul continente ove instancabilmente ribadì principi e soluzioni che in un lungo discorso precedente rendeva più necessarie e più immediate, dava sempre più la misura del suo valore nel magistero e nella azione. E fu cosa al tutto straordinaria. Da molte parti si guardava a lui con sicurezza nel presente e con fiducia nell’avvenire. È il periodo nel quale la figura dell’Arcivescovo va nettamente oltre i confini della sua archidiocesi e della stessa Calabria.

Quando a Roma sorse l’idea di un documento collettivo di tutto l’Episcopato del meridione che ricordasse i principi della sociologia cristiana a proposito soprattutto di quei problemi che più toccavano il Mezzogiorno d’Italia — e mi ricordo assai bene quella vicenda — si pensò naturalmente a Mons. Lanza e fu così che una lettera destinata per sé inizialmente alle genti di Calabria, diventò lettera collettiva di tutto l’Episcopato del Mezzogiorno stesso.

Ormai noi tutti guardavamo a lui come ad un araldo per l’avvenire di quella ricostruzione sociale e morale che impegnava il nostro Paese. Era in quel 1950 alla maturità propria di un grande giorno d’estate. Purtroppo incombeva il temporale stroncatore.

La sera del 17 giugno appena finita l’ultima seduta della Commissione Episcopale era partito per Reggio. Vi giungeva la mattina del 18. Si recò a Bova e in campagna a Zerovò. Ritornò: c’era la organizzazione del Congresso catechistico Regionale e c’erano gli esami degli alunni in Seminario. Non voleva essere lontano; e poi, c’erano le solite udienze. Il mercoledì 21 aveva ascoltato gente fino alle ore 15.30. Solo dopo aveva pranzato ed aveva ripreso il lavoro fino a tarda sera per recarsi ancora in Seminario. Il giovedì 22 al mattino si presentò stanco, pallido e febbricitante.

Esattamente come quando era entrato in Reggio. Collo stessa fermezza fiduciosa e pacata Mons. Lanza andò incontro al suo Signore.
L’intelligenza, l’animo, la grandezza del comportamento, la virilità del coraggio, l’adamàntina aderenza al dovere, la singolare prestanza della intuizione e della azione avevano definito il suo volto davanti agli uomini, il suo merito davanti a Dio.
Sono convinto che la missione di questo uomo singolare che si annoverà tra i maggiori della Chiesa nella prima metà del secolo non sia del tutto finita per l’esempio, gli scritti ed il solco da lui aperto. Dio voglia che la sua prematura scomparsa sia il segno di una divina intenzione benefica soprattutto alla sua cara diocesi di Reggio, alla sua amatissima Calabria!

Cardinale Giuseppe Siri

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