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Pregare è come respirare

La preghiera è al cuore della fede come sua fonte e culmine. Tuttavia essa costituisce un problema, perché la maggior parte dei credenti dichiara di non disporre di tempo sufficiente per dedicarsi all’orazione, la confina ai margini della giornata o la riduce a una ripetizione di formule che non toccano il cuore. La parabola odierna ci svela come pregare, ossia con insistenza, e traccia il punto di partenza del dialogo con Dio: la consapevolezza di avere bisogno, anzi di avere un «avversario». Chi pensa di essere autosufficiente non sarà in grado di elevare lo sguardo a Dio; chi invece è conscio di non poter fare a meno dell’aiuto del Signore, si è già incamminato lungo il sentiero della preghiera. La vedova chiede giustizia perché qualcuno le nega un diritto, come spesso accadeva a quel tempo, in cui chi rimaneva senza marito e priva di figli non godeva di alcuna protezione sociale. L’avversario di cui si parla non è specificato, e nella nostra esperienza non dobbiamo necessariamente pensare ad un agente esterno, perché spesso siamo noi stessi i primi nemici e distruttori della vita interiore. La persistenza della vedova è immagine della perseveranza richiesta nel combattimento spirituale al cristiano che intende seguire il vangelo, il quale rivela come anche la vita di Gesù dal deserto alla croce sia costellata da continue prove. Il giudice si sente quasi molestato da questa donna, la cui insistenza è paragonabile a un pugno nell’occhio, come suggerisce l’etimologia del verbo greco. È proprio nello sguardo che si gioca il cammino di fede: lo sguardo indifferente, irritato e rassegnato del giudice si contrappone a quello deciso, appassionato e speranzoso delle vedova. Per pregare, lo sguardo deve deviare dalle traiettorie basse dell’autoreferenzialità e dell’invidia e seguire la rotta di un cuore che punta verso l’alto, lasciandosi sorprendere dall’irruzione della verità che si staglia nell’orizzonte della preghiera. Il giudice fatica ad accettare una verità che lo scomoda e lo chiama ad uscire dalle proprie abitudini per occuparsi del bene dell’altro, tuttavia ammette il suo limite: di non amare la verità e la giustizia stessa, di sceglierla solo per evitare un fastidio maggiore. Non è certo questa una motivazione sufficiente per amministrare la giustizia, ma è comunque un punto di partenza. O meglio: Dio lo può trasformare in un nuovo inizio. A differenza del giudice terreno, Il Signore fa giustizia senza indugiare «ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui», perché è totalmente proteso verso di loro; Egli non è un semplice amministratore, ma è la giustizia stessa. La vera sfida per la nostra fede è comprendere il modo in cui Dio attua la sua giustizia. «Prontamente», specifica Luca, sebbene modalità e tempi della grazia siano in genere diversi dalle attese umane; quand’anche però la visibilità storica dell’intervento divino non coincidesse con il bisogno dell’uomo, la grazia opera ad un livello più profondo e cambia il cuore dell’orante. Tale trasformazione richiede necessariamente la fede. Ecco perché Gesù pone la domanda finale: «Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?». È la fede che dona la giusta sensibilità per percepire le risposte di Dio, per rendersi conto che Egli è buono perché ci fa incontrare persone buone, se per assurdo non trovassimo altri motivi. L’interrogativo di Gesù potrebbe risuonare come inquietante, quasi che, dopo una vita trascorsa nella fede, un momento di smarrimento nella fase conclusiva dell’esistenza sarebbe letale per la salvezza. In realtà possiamo considerare che Cristo viene ogni giorno a visitarci e, se ci facciamo trovare pronti, non perderemo l’appuntamento con l’eterno. Occorre dunque alimentare sempre la fede con una preghiera continua, irrinunciabile, come il respiro. La prima conversione oggi dei cristiani è quella alla preghiera, che nutre la fede e dispone al dono di Dio. Si tratta di sceglierla sopra ogni cosa, una volta per tutte.