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Povertà è l’incapacità di accorgerci delle sofferenze

Le due condizioni sociali vengono descritte dall’evangelista Luca con poche pennellate che dicono tutto. Del ricco si dice che “indossava vestiti di porpora e di lino finissimo, e che ogni giorno si dava a lauti banchetti”; del secondo invece che “stava alla porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco; ma erano i cani che venivano a leccare le sue piaghe”. Del poveraccio ci viene detto che si chiamava Lazzaro (già il significato del nome è un programma, una profezia: “Dio aiuta)”; del ricco non conosciamo per nulla l’identità. Eppure ieri come oggi ha un nome chi è qualcuno, chi possiede molto, chi è importante e potente nella società, mentre ignoti, sconosciuti e senza nome sono i poveracci, i pezzenti, gli “scarti”, come ama definire papa Francesco gli ultimi della terra.
Un altro grande insegnamento che il testo evangelico ci dà è che la vera povertà è l’incapacità di vedere che proprio a pochi metri da noi c’è qualcuno che soffre e sta male. Nella parabola del buon samaritano viene detto che i viandanti “videro e passarono oltre”, qui nemmeno si vede, nemmeno ci si accorge. Conclusione: la vera povertà non è quella economica, ma è la chiusura del cuore, la cecità spirituale di chi possiede tutto, per la quale i nostri vecchi dicevano che “il sazio non può capire il digiuno”. La vista all’epulone ritornerà quando le sorti, post-mortem, si ribaltarono; allora si aprirono i suoi occhi e riuscì finalmente a vedere il povero Lazzaro, al quale sperava, forse ancora in virtù del suo potere e della sua importanza, di strappare un ultimo servizio: quello di intingere nell’acqua la punta del dito e di bagnargli la lingua, per attutire la sofferenza provocata dalla fiamma del fuoco della punizione. Ma quando Abramo, alla cui intercessione si era rivolto, oppone un drastico rifiuto, non si rassegna a dare un ultimo comando, andare ad avvisare i suoi fratelli affinché non vengano anch’essi in quel luogo di tormento, ove lui già si trova.
La parabola ha una chiara allusione alla vita eterna, ai novissimi: morte, giudizio, inferno e paradiso. Senza entrare in disquisizioni teologiche, portiamo con noi il chiaro e fondamentale messaggio contenuto nella parabola. Innanzitutto la certezza che tutti un giorno moriremo e dovremo comparire davanti al tribunale di Dio. La morte non fa preferenze di persone, muore il povero e muore il ricco, nessuno con i propri soldi può aggiungere una sola ora ai propri giorni, già precedentemente tutti contanti dallo stesso Dio. Il giudizio finale non sarà altro che la ratifica delle scelte operate in vita, della nostra capacità di vedere la sofferenza dei fratelli e di sovvenirle con generosità e altruismo. Infine ricordiamo che Dio ha preparato per quelli che lo amano e lo cercano con cuore sincero un premio eterno nel cielo, e paramenti un castigo eterno per tutte le nostre cattiverie e ingiustizie.
La parabola, più che descrivere quello che avverrà dopo la morte, ci ammonisce, senza per questo metterci ansia, che la nostra sorte futura si gioca qui, su questa terra, nella quotidiana esistenza. Ecco perché non dobbiamo mai dimenticare che la vita presente, al di là della sua più o meno lunga durata, è l’occasione propizia che Dio mette a nostra disposizione per procurarci non un tesoro su questa terra, ma quello eterno nel cielo, dove “non ci sarà più nè pianto, nè lutto, nè pena alcuna”.