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Pontificale, l’omelia di Morrone: «La fede cristiana non si attarda in questioni astratte»

Carissimi vi saluto tutti e ciascuno nel Signore Gesù.

Un saluto riconoscente ai confratelli nell’episcopato qui presenti, a tutti i presbiteri, ai diaconi, alle religiose e ai religiosi e ai seminaristi qui convenuti. Saluto e ringrazio i portatori della vara, i volontari e tutti coloro che hanno dato il loro significativo contributo alla nostra festa.

Saluto riconoscente a tutte le autorità civili, politiche e militari che ci onorano della loro presenza, in particolare il Prefetto Mariani e il sindaco facente funzioni Paolo Brunetti che ringrazio per il suo intervento, il sindaco facente funzione della città metropolitana Carmelo Versace e il prefetto Massimo Mariani, il questore Bruno Megale.

Grazie per la disponibilità e la collaborazione offerta per la buona riuscita della festa e grazie per il lavoro svolto a vantaggio della nostra città.

Carissimi, dopo il periodo delle restrizioni dovute al Covid, la nostra città esprime nuovamente la gioia di incontrarsi sotto lo sguardo consolante di Maria, uno sguardo dolcissimo che esprime vicinanza materna nel momento difficile della ripresa, su cui si addensano però le nubi della guerra, della difficoltà economica ed energetica, dei vari conflitti che rischiano di assurgere a sistema in nome di particolarismi e di potere. Il tempo che abbiamo trascorso nella pandemia ha fatto emergere ovunque e anche nella nostra città una grande ricchezza di umanità e di solidarietà, ricchezza che speriamo entri a regime e diventi stile di vita.

Sotto lo sguardo materno di Maria oggi ancora una volta abbiamo ascoltato le Beatitudini.

Le conosciamo a memoria, forse; sono infatti il programma di vita altra che Gesù ci ha regalato e che sua Madre ha imparato a personalizzare nella sua esistenza di donna credente. “Una spada a doppio taglio ti trafiggerà”, le aveva profeticamente annunciato il vegliardo Simeone quando giovanissima mamma con Giuseppe aveva presentato Gesù al Tempio. È la spada della Parola penetrata da cima a fondo in tutte le pieghe intime del suo essere donna, trasfigurandole la vita in una beatitudine permanente. La Chiesa per bocca di Elisabetta le riconosce infatti la prima delle felicitazioni messianiche: beata te perché ascoltando la Parola hai creduto, ti sei fidata. La fede, non tanto la credenza religiosa, nasce dall’ascolto della Parola, cioè dalla disponibilità ad affidare con tutto il cuore, con tutta la mente, e con tutte le forze la nostra vita al Dio di Gesù. Di Lui possiamo fidarci: è Dio infatti che per primo ci ascolta, si fida di noi, crede in noi, si affida a noi per realizzare in questo mondo il Suo Regno di giustizia e di pace. Tra noi e Dio si instaura come un circuito di mutuo ascolto che coinvolge le nostre umane relazioni fatte di ospitale conoscenza e simpatica accoglienza reciproca da cui scaturisce la fiducia, la stima, la serena e costruttiva collaborazione che si apre a tutte le persone che desiderano vivere, a partire da questa città, relazioni umane all’altezza del nostro cuore.

Da questa disponibilità, docilità ad aprire il nostro cuore all’azione dello Spirito, si generano le grandi opere di giustizia e di misericordia, di mitezza e di pace che Dio, come in Maria, vuole realizzare in noi, per noi, per tutti, ma non senza di noi. E da qui in poi anche noi saremo chiamati beati se come Maria, nostra madre, praticheremo le beatitudini. In questa nostra arcidiocesi non pochi credenti, per la maggior parte anonimi, hanno attuato il programma di vita del Signore Gesù lasciando in eredità una benedizione che non smette oggi di dare i suoi frutti in ogni ambito dell’esistenza di questa città. Si tratta di uno spaccato di Chiesa, del suo volto bello, buono, beato che noi tutti desideriamo vivere.

Questo ci dà speranza, ci aiuta a guardare avanti con sano e realistico ottimismo, nonostante le inevitabili difficoltà che di volta in volta la strada ci riserva.

In realtà, in questo primo anno di cammino sinodale, pur con tutti i momenti belli e costruttivi vissuti sia nelle nostre comunità parrocchiali sia a livello diocesano, e di cui sono grato a tutti voi, mi pare che in genere abbiamo faticato nella dinamica dell’ascolto e perciò dell’accoglienza, della stima, della gioiosa collaborazione, del penderci cura gli uni degli altri. La medesima difficoltà è stata riscontrata nella poca attenzione riservata a coloro che vivono la loro esistenza al di fuori dei nostri circuiti ecclesiali ma che in buona parte sono persone con le quali condividiamo relazioni e spazi quotidiani, non pochi quelli della porta accanto. Eppure la pratica mensile della Lectio avrebbe dovuto aprirci all’ascolto della realtà nella quale siamo tutti immersi e da questa ascoltare ancora la Parola per cogliere ulteriore intelligenza e pro-vocazioni.

In verità, l’ascolto è possibile lì dove ciascuno di noi, consapevolmente bisognoso di non bastare a sé stesso, si dispone a mettersi in gioco nella relazione con gli altri, impastati come noi del medesimo humus, di terra, come noi fibre di una trama di uno stesso tessuto umano fragile e in sé inconsistente. Lo sguardo sull’altro con molta probabilità allora sarà sostenuto dal simpatico e semplice riconoscimento che siamo tutti mancanti, pur abitati da tante possibilità. La beatitudine della povertà, sostanziale grammatica del nostro essere creature, è la porta d’accesso alla beatitudine dell’ascolto, condizione indispensabile per la fiducia che schiude il cuore a Dio e ai fratelli. In fondo si tratta di un esodo, di un’uscita da sé non scontata perché faticosa.

Senza questa interazione, camminare insieme diventa veramente difficile, rischiamo di rimanere bloccati nelle nostre posizioni. Pertanto, il dinamismo, il processo sinodale, necessita in tutti noi di un supplemento di umiltà, virtù umana e cristiana che scioglie relazioni ingrippate da risentimenti e altezzosità, infantilismi e atteggiamenti rancorosi che rivelano l’inconsistenza della nostro humanum. Lo stile e la postura sinodale è infatti un esercizio difficile di umiltà: senza di essa non ci sarà seria disponibilità al confronto con le persone con le quali abbiamo deciso di camminare insieme dietro Gesù. La fede in Lui non può che rimotivare e sostanziare questa disponibilità. Quale apertura ai punti di vista dell’altro, specialmente di chi non condivide la nostra speranza, potrà attuarsi, quale reale collaborazione o ancora di più corresponsabilità potrà mai esserci se ci sentiamo degli arrivati, quale dialogo può instaurarsi tra di noi se rimaniamo ingessati nelle nostre posizioni mentali, sociali, culturali ed ecclesiastiche? L’umiltà, ossia la serena consapevolezza dei propri limiti e delle proprie belle capacità, ci regala, non senza lotta interiore, quella gioiosa libertà di spirito che decentrandoci, ci apre all’attenzione degli altri, ci rende meno arroganti e pretenziosi.

L’attenzione, rileva Enzo Bianchi «è una lucida presenza a sé stessi che diviene discernimento della presenza del Dio che è nell’uomo» (E. BIANCHI, Le parole della spiritualità. Per un lessico della vita interiore, Rizzoli, Milano 1999, 72).

Pertanto l’ascoltarci con attenzione, è un atto di adorazione del Dio di Gesù che abita l’esistenza di tutti, pur essendo ignorato da molti. L’ascolto come esercizio da praticare anche in questo secondo anno di cammino, sappiamo che non è un mero e cortese sentire le idee altrui, ma ascoltare l’esperienza di vita dei fratelli o di coloro che da poco abbiamo conosciuto. Non un parlarsi addosso, ma far parlare la vita di ciascuno, facendosene carico, inventando occasioni di prossimità e circuiti di fraternità per offrire respiro e dignità umana. Questa è la vera sfida ecclesiale, profetica in questo nostro mondo del benessere egolatrico, dove l’ansia delle prestazioni a tutti i livelli per stare all’altezza delle aspettative altrui, offre frustrazioni e solitudini mortali. Che cosa avranno da offrire di così umano le nostre comunità si da attirare l’attenzione dei cosiddetti “lontani”, se anche nelle nostre parrocchie siamo lontani gli uni dagli altri, estranei o sconosciuti gli uni agli altri, mentre celebriamo il sacramento eucaristico in cui chiediamo allo Spirito di renderci uno in Cristo, famiglia di Dio? Certo, sto calcando i toni.

Ma dalla sintesi del cammino è emerso chiaro in tutti coloro che hanno preso parte a questa dinamica sinodale la gioia di ascoltarsi e di poter esprimere i propri desideri e timori, la riscoperta della dignità battesimale già nella concreta possibilità di avere la parola nell’assemblea dei credenti. È un semplice dirsi: ci sono anch’io, mi fai spazio, posso esprimere il mio parere, posso collaborare e prendere parte alle comuni decisioni per sentirmi veramente corresponsabile in questa così tanto declamata comunità? Domande di questo genere segnalano criticità nell’impianto comunionale dell’essere Chiesa, ma che accogliamo come occasioni di discernimento e che nel cammino sinodale avviato senz’altro affronteremo nel comune ascolto dello Spirito.

D’altronde, ben sappiamo che un ascolto attento, rispettoso e accogliente, è atteggiamento umano propizio per una sana e feconda amicizia. L’icona di Betania che ci accompagna in questo secondo anno di cammino sinodale, ci rimanda a quella casa dove Gesù si trova a suo agio, trova ristoro, incontra volti amici, fidati e affidabili, persone che fanno gioire il cuore e come balsamo curano fatiche e ferite. Betania, così come ci viene presentata da Luca e da Giovanni è domus ecclesiae ante litteram. Certo Marta, Maria e Lazzaro non vivono in un clima paradisiaco: le due sorelle, tra le quali non sembra esserci tutta quest’intesa, mettono in ombra il maschio di casa. La prima possessiva, invadente e autoreferenziale, attaccata ai ritmi tradizionali e sicuri delle faccende da sbrigare, padrona di casa tout court; l’altra più remissiva, defilata, forse più furba e intuitiva circa il posto giusto da occupare come persona prima ancora che come donna, perciò profeticamente un po’ ribelle rispetto a schemi sociali e religiosi convenzionali tendenti a irrigidire pericolosamente ruoli e servizi.

Nessuno è perfetto; neanche le nostre famiglie lo sono. Ma ambedue con il fratello, insieme, non singolarmente, costituiscono la casa amica dove Gesù sosta piacevolmente. Ciascuno con le proprie qualità e limiti costituiscono un tessuto umano di relazioni in cui Gesù si ritrova, un clima fraterno che profuma di vita già risorta, gratuita e perciò impagabile: casa dell’amicizia e dell’accoglienza, casa familiare il cui uscio è aperto a tutti, come sono chiamate ad essere le nostre comunità parrocchiali, in qualche modo cantieri sempre aperti all’opera dello Spirito che incessantemente ne rinnova il volto per essere sempre più conformi all’ideale evangelico.

Carissimi, il cammino sinodale, ce lo ripetiamo, non è una programmazione pastorale che si aggiunge ad altre già in corso d’opera che scandiscono da anni i nostri ritmi ecclesiali, compitino da eseguire magari a tavolino, per poi voltare pagina e attenderne un altro, anno dopo anno. Ma è l’occasione data dallo Spirito per riscoprire la natura del nostro essere chiesa, popolo di Dio in cammino, sacramento di unità per tutto il genere umano (LG 1.9). È in questa vocazione originaria, principiata nel Battesimo, formata dalla Parola e alimentata dall’Eucaristia, fons et culmen della vita cristiana, che riscopriamo la nostra chiamata personale ad edificare il Corpo del Signore e a verificare se il nostro ministero, a cominciare dal mio, è concretamente a servizio del Vangelo per la vita del mondo.

D’altra parte in un mondo che velocemente cambia e in cui mutano gli assetti geopolitici, ideologici culturali ed economici sullo scacchiere planetario così da incidere pesantemente nella nostra vita quotidiana, sentiamo la fatica e l’affanno pastorale che rischia di farci rinchiudere nelle sicurezze del si è sempre fatto così, che probabilmente mette “in luce il vuoto nascosto delle nostre Chiese”. Di fronte ad un comprensibile spaesamento lo Spirito del Signore mediante il cammino sinodale ci sta offrendo “un serio tentativo per mostrare al mondo un volto del cristianesimo completamente diverso» (T-HALÍK, Il segno delle chiese vuote, Vita e pensiero, Milano 2020, 11), non un’altra Chiesa, ma una Chiesa altra, come ci ripete più volte papa Francesco.

In questo tempo di passioni tristi e spente che segnano le nostre stesse vite, di difficoltà ad abitare nuovi linguaggi per intercettare i desideri, le angosce e le bellezze delle nuove generazioni, di fronte alle tante emergenze legate alla costante crisi sociale e a tutta l’odierna problematica ambientale, siamo chiamati a riattivare la passione per il Vangelo, l’unica cosa necessaria di cui anzitutto noi abbiamo bisogno, l’unico vero e inossidabile bene che possiamo regalare annunciandolo a tutti. Il cammino sinodale è in sostanza concreto esercizio di cristianesimo, meglio: esercizio di comunione, per uno stile di vita che caratterizza la nostra appartenenza al Signore e risponde al suo desiderio: ut unum sint, concreto e credibile riflesso della comunione Trinitaria.

Da qui dovrebbe essere normale vivere il “noi” ecclesiale nella comune corresponsabilità dell’unico Popolo di Dio. Esercizio di comunione, concreta traduzione eucaristica che richiede ascesi personale e che può essere messo alla prova nel prendere sul serio gli organismi di partecipazione, luoghi della comunione e del dialogo, del confronto dialettico, spazio fraterno di riconoscimento e valorizzazione dei carismi e dei ministeri. Esercizio di comunione per trovare insieme vie e sentieri migliori per una reale sinergia pastorale per l’annuncio del Vangelo a vantaggio di tutte le persone che abitano i nostri territori.

Esercizio di comunione che interpella anzitutto noi presbiteri/vescovi chiamati a presiedere e guidare la prassi comunionale che dovrebbe caratterizzare la nostra autorità sacramentale nel senso etimologico più bello e generativo di “colui che fa crescere” a misura di Gesù che sta in mezzo ai suoi come colui che serve. E questo non è affatto scontato poiché mette in crisi un modo ridotto e vecchio di esercitare il nostro ministero che più volte papa Francesco ha definito “clericalismo”. Siamo infatti ben coscienti che il cammino sinodale ha avviato un processo di non ritorno per ripensare le modalità ordinarie del ministero ordinato e di riformulare nello stile partecipativo la corresponsabilità di tutti i membri del Popolo di Dio. Certo, anche i laici faticano ad assumere lo stile sinodale, abituati in genere ad un vissuto di Chiesa costruita intorno al ministero ordinato, annosa questione che sfianca il passo della pastorale e dell’annuncio evangelico. Non è normale che molti membri “laici” del popolo di Dio aspirino più a servire all’altare piuttosto che impegnarsi nel quotidiano delle loro professionalità e competenze sociali, culturali, politiche per essere sale e luce nel mondo.

Di sicuro in questo processo di ascolto e discernimento comune, per decisioni condivise e corresponsabili, non viene meno il ministero ordinato. Il suo ufficio è missione di garanzia che la Chiesa nelle sue decisioni in un tempo che muta annunci il Vangelo di sempre in contesti nuovi: la Chiesa è nella storia memoria Jesu custodita nella memoria apostolica su cui è fondata la nostra comune fede.

In realtà carissimi, lo ripetiamo, il cammino sinodale, non è un’aggiunta o una delle coloriture aggettivali per rinfrescare il volto della Chiesa che di tanto in tanto ci inventiamo per mascherare le sue, nostre, inevitabili rughe, ma è evento dello Spirito che: « introduce la Chiesa nella pienezza della verità, la unifica nella comunione nel ministero, la provvede e la dirige con diversi doni gerarchici e carismatici e la abbellisce con i suoi frutti e con la forza del vangelo la fa ringiovanire continuamente» (LG 4). Da qui allora «la sinodalità designa innanzi tutto lo stile peculiare che qualifica la vita e la missione della Chiesa [… ] che si esprime nel modo ordinario di vivere e operare della Chiesa, modus vivendi et operandi » (cfr CTI, La sinodalità nella vita e nella missione della chiesa, 70), è la sfida di scoprire e trasmettere la “mistica” di vivere insieme (EG 87).

Ecco da qui, dall’ascoltarci con attenzione emergerà un costruttivo dialogo tra di noi e soprattutto con tutti coloro che nella nostra arcidiocesi hanno a cuore la pace, la legalità, la giustizia, il benessere dei cittadini, specialmente con gli amministratori, le autorità civili e militari, presenti qui oggi fra noi, posti al non facile e non sempre riconosciuto servizio del bene comune («E dovere di tutto il Popolo di Dio, soprattutto dei pastori e dei teologi, con l’aiuto dello Spirito Santo, di ascoltare attentamente, capire e interpretare i vari modi di parlare del nostro tempo, e di saperli giudicare alla luce della Parola di Dio, perchè la Verità rivelata sia capita sempre più a fondo, sia meglio compresa e possa venire presentata in forma più adatta». GS 44). Nell’Ecclesiam suam il Santo Papa Paolo VI ci ammoniva: «La Chiesa deve venire a dialogo col mondo in cui si trova a vivere. Così la Chiesa si fa parola; la Chiesa si fa messaggio; la Chiesa si fa colloquio» (67). Un dialogo condotto in libertà, sostenuto dall’amore e dall’amicizia, non deve conoscere calcoli né confini, perciò: «il dialogo non è orgoglioso, non è pungente, non è offensivo. La sua autorità è intrinseca per la verità che espone, per la carità che diffonde, per l’esempio che propone; non è comando, non è imposizione. È pacifico; evita i modi violenti; è paziente; è generoso (ES 83).

Ne abbiamo a sufficienza per il nostro cammino sinodale ad intra e ad extra.

Il cammino sinodale segnato dalla comunione è ben più di un esercizio democratico ma di esso non possiamo non accogliere quella dinamica “popolare” che a tutti offre la possibilità di parola e di sano protagonismo, propedeutico per vivere più consapevolmente e attivamente la cittadinanza in questo nostro territorio, amato da Dio.

È evidente che quest’ambito, chiamiamolo secolare, è spazio di testimonianza soprattutto dei cristiani laici e in particolare di coloro che intendono investire la passione del Vangelo nell’agone politico quale forma alta di carità sociale e amministrativa a beneficio di tutti. Sogniamo credenti in Cristo, cittadini in questo territorio che lavorano e collaborano tra di loro e con tutti, anche con sensibilità e prospettive diverse, non avverse, ad una politica alta, caratterizzata dall’ascolto e dal dialogo costruttivo, imparato, vissuto e sofferto nelle comunità cristiane. Una politica di cui abbiamo urgente necessità in questo momento di litigiosità esasperata e autoreferenziale. D’altra parte «può funzionare il mondo senza politica? Può trovare una via efficace verso la fraternità universale e la pace sociale senza una buona politica?» (FT 176).

Auspichiamo pertanto una politica dell’ascolto e del dialogo e pertanto dell’inclusione sociale e culturale.

Una sana politica sa ascoltare le esigenze che emergono dal territorio ma, come fa il mercato, non va dietro ai capricci della gente, perciò sa rischiare scommettendo sul buon senso, soprattutto sull’intelligenza delle persone, che in genere sanno distinguere la logica del voto di scambio e di favore da proposte realistiche e praticabili, rispettose della dignità di ogni persona, a cominciare da quelle invisibili ai radar della nostra indifferenza.

Una sana politica che dialoga con tutti, sa stare con lealtà e gentile rispetto nella dinamica democratica stimando e promuovendo la sua etimologia etica, cioè governo di popolo nella sua rappresentanza parlamentare. Perciò l’ascolto delle esigenze della gente per una vita più dignitosa non può essere appiattita o camuffata da promesse sbalorditive per ottenere vantaggi a breve termine, impegni che non possono reggere di fronte alla dura e contradittoria realtà dell’esistenza che nel locale è condizionato fortemente da fattori globali o da accordi e patti partitici pur legittimi.

Il rischio continuo in questa via è di ordine culturale: promesse tamponi sono spreco di energie che alimentano una ben nota mentalità assistenzialista che non aiuta le persone ad essere cittadini attivi, deprime quel protagonismo civico impedendo sottilmente ai singoli, e in qualche misura anche alle nuove generazioni, di prendere in mano responsabilmente la propria vita. Questa sottile dinamica, in cui con abilità si inserisce il malaffare, genera o quanto meno alimenta quella subalternità culturale che tanto male fa alla nostra mentalità calabra. La nostra fede in questo campo è sempre sfidata a non assecondare quest’andazzo culturale a volte nascosto anche in alcune forme della religiosità popolare o nelle pieghe di un certo assistenzialismo caritativo, ma a porre gesti e investire energie «in un impegno arduo e costante che offra alle persone le risorse per il loro sviluppo, per poter sostenere la vita con i loro sforzi e la loro creatività … assicurando così un’equità sostenibile» (Ft 161) per non lasciarsi andare.

Pertanto, mentre ringrazio la nostra Caritas e il Terzo Settore per i tanti servizi offerti alla promozione della dignità della persona, non possiamo non segnalare le tante persone, interi nuclei familiari con minori e non solo, stranieri respinti o clandestini che ancora vivono ai margini della nostra città in condizioni di estrema e disumana precarietà. Se non tolleriamo i rifiuti urbani per strada come possiamo sopportare la visione dell’uomo-scarto? Possiamo fare di più. Mi appello al buon senso e all’umanità dei nostri amministratori perché insieme possiamo offrire una briciola di dignità in più a tanta gente in grave difficoltà.

È giunto però il tempo di superare l’assistenzialismo filantropico o quanto meno di integrarlo con l’educazione alla responsabilità per offrire agli ultimi la possibilità di prendere la vita nelle loro mani: Chiedo ai tanti volontari, di assumere questa consapevolezza per coscientizzare i poveri della loro dignità, ma mi permetto appellarmi alla responsabilità anche delle istituzioni e della politica che sono tentati di caricare sul volontariato cattolico e non, quello che di fatto compete loro. Per questo con le istituzioni che lavorano in questo nostro territorio diocesano auspico l’incremento di un sereno e franco ascolto e di una reciproca costruttiva collaborazione per il bene della nostra gente.

Noi cristiani siamo chiamati ad una cittadinanza attiva, non soltanto quando le problematiche interessano o intersecano i nostri interessi personali o anche ecclesiali. Questo, di fronte ad una realtà che muta velocemente, comporta non allentare la presa su una costante formazione della coscienza civica e politica, sociale e culturale ispirata e vagliata alla luce del Vangelo. La fede cristiana non si attarda in questioni astratte, ma si prende cura alla vita degli uomini e delle donne che abitano i nostri vari territori: dalle aree interne a quelle marine, dalle aree urbane degradate e quelle in via di espansione.

La fede che ama la terra, questo nostro territorio, si preoccupa di aiutare le persone ad avere un’intelligenza critica, a saper distinguere l’oro dalla paglia, ma soprattutto come Chiesa di Reggio Bova ci corre l’obbligo di formare tutti ad una rinnovata coscienza politica, e favorire, in particolare nelle nuove generazioni, la nascita di vocazioni ad un impegno politico serio, competente e appassionato, per servire da credenti la città degli uomini, ispirato alla dottrina sociale della Chiesa quale aspetto sostanziale della sua missione rivolta all’uomo integrale che vive nell’oggi della salvezza.

In questa nostra realtà in cui gli adulti vivono il complesso di Peter Pan (A. Matteo, Convertire Peter Pan. Il destino della fede nella società dell’eterna giovinezza, Ancora, Milano, 2021) non volendo mai crescere, scommettere sulle nuove generazioni significa attivare quella sana e fruttuosa generatività che comporta non solo accompagnare i giovani nella loro avventura di vita offrendo possibilmente gli strumenti per la loro crescita in maturità, ma anche e forse oggi soprattutto, per noi adulti e anziani, sapersi mettere da parte, passare con gioia il testimone della responsabilità sociale, culturale, politica, ecclesiale, a ciascuno di loro. Nei giovani, senza vezzeggiarli né illuderli, né deprimerli con le nostre tiritere moralistiche, dobbiamo alimentare quel sano orgoglio che umilmente offre la consapevole responsabilità di poter fare meglio dei propri padri, pur non essendo migliori di loro. E allora provo a chiedermi con voi: che posto reale hanno i giovani nei programmi di queste prossime elezioni politiche? Quali proposte concrete per fermare l’esodo di tanti di loro che sempre più lasciano Reggio e la Calabria per studio e per lavoro, a prezzo dell’impoverimento sociale e economico della nostra terra? Quale impegno, ad esempio, per attuare quelle misure che già oggi i PNRR prevedono una premialità per i progetti che vanno a favore dell’occupazione giovanile e femminile?

Un grazie sincero a chi è impegnato su vari fronti, nell’educazione e nella formazione, nella cultura e nella scienza, nello sport, nel lavoro e nelle professioni, nel mondo imprenditoriale, lavorando in sinergia con tutti quelli che hanno a vario titolo responsabilità istituzionali e amministrative. Tutti insieme siamo chiamati a ridare bellezza a questa città metropolitana che fatica a uscire da una un’opprimente sensazione di incompiutezza e di provvisorietà, quando non di sciatteria che talvolta sembra pervadere tutti.

La nostra, carissimi, è una chiamata alla bellezza che va oltre l’estetica greca pur intensa dei nostri Bronzi, perché include in sé il buono, il vero, il giusto, in sintesi l’amore misericordioso liberante che tutti umanizza e che noi confessiamo in Gesù, nostro Signore.

A Maria, Madre della Consolazione, affidiamo allora tutte le persone che abitano questa nostra città metropolitana e in modo particolare i nostri giovani, le nostre giovani, futuro che già opera con generoso e creativo impegno nel presente della nostra chiesa e del nostro territorio.

Amen.