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Parlare di femminicidio senza retorica

femminicidio

«Il termine “violenza di genere” è tuttavia molto ampio e impreciso. Con esso, rischiamo di abbracciare troppi fenomeni e di non afferrarne nessuno», spiega a tempi.it Corradi, «fino ad oggi la sociologia ha utilizzato l’equazione potere-violenza per spiegare la violenza di prossimità, in particolare quegli eventi in cui, all’interno di una relazione di amore, l’uomo è aggressore e la donna vittima. La violenza contro le donne in ambito familiare è stata portata alla luce dai movimenti di emancipazione femminile che, denunciando l’asimmetria dei ruoli attribuiti a uomo e donna nella società e nella famiglia italiana, spiegavano la violenza domestica come conseguenza del potere maschile. Negli anni Settanta tale spiegazione era plausibile; quarant’anni dopo, essa trascura i cambiamenti avvenuti nella condizione della donna e nella parallela evoluzione dell’identità maschile. La violenza “di genere” (scrivono ancora oggi alcuni studi) è esercitata dagli uomini “come classe” al fine di mantenere i vantaggi che essi traggono dalla dominazione femminile. Ma il genere non è una classe».

Molte femministe oggi citano Diana Russell, «tutte le società patriarcali hanno usato – e continuano a usare – il femminicidio come forma di punizione e controllo sociale sulle donne».

Forse la famiglia patriarcale esiste ancora in Italia, ma non è l’unico né il prevalente modello familiare e neanche l’unico modello capace di generare violenza. Ciò che dobbiamo spiegare non è perché gli uomini sono violenti, bensì perché e quando alcuni uomini lo sono. Il modello di società patriarcale, ancora oggi invocato, è infatti incapace di rendere conto della tragica vita e morte di molte donne economicamente indipendenti e spesso definite “donne forti”. Ricordo il caso di Barbara Cioni che destò molto clamore nel 2007, anche perché Barbara era incinta e l’uccisione di una donna in gravidanza sembra l’ultima frontiera nella dissacrazione del corpo femminile. Barbara era un’imprenditrice, titolare di due lavanderie professionali che amministrava e aveva contribuito a creare; suo marito era disoccupato. Anche altre, più recenti, storie di donne uccise dal partner, mostrano che il modello di “donna debole” non è calzante. È possibile quindi guardare ai femminicidi evitando il compito spesso infruttuoso di definire ex-ante gli uomini violenti e le loro vittime? Dalle ricerche empiriche disponibili in Italia e all’estero sappiamo che variabili come la classe sociale, il livello di istruzione e la professione non sono particolarmente significative, che un retroterra di povertà e disagio non genera, di per sé, violenza contro i deboli. Gli aggressori sono spesso incensurati e capaci di intendere e di volere. La precedente storia di abusi subiti da uno dei due partner o l’aver assistito a episodi di violenza domestica in età infantile hanno invece una correlazione debole con comportamenti violenti in età adulta. Il consumo di sostanze tossiche sembra essere un fattore aggravante, ma non una vera concausa. Nell’indice che misura il rischio di aggressione contro la partner, il fattore che detiene il punteggio più elevato è una precedente storia di aggressioni fisiche e di conflitto nella coppia.

Chi è quindi il soggetto debole e perché?

La letteratura scientifica italiana assegna tale ruolo alla donna in base all’equazione potere-violenza. Se è vero che le definizioni di genere sono culturalmente fondate e che i due elementi della coppia maschile-femminile si definiscono anche per reciprocità l’uno verso l’altro, una parte del problema della violenza contro le donne sta però nel fatto che il femminile italiano (cioè il ruolo, l’autorevolezza e lo spazio pubblico delle donne italiane) è molto cambiato, mentre il maschile non altrettanto. Fino a cinquant’anni fa, il principio di autorità era indiscutibilmente esercitato dall’uomo che occupava uno spazio centrale nella comunità. Ma oggi le società affluenti sono società senza padre, comunità dove gli uomini rischiano di diventare superflui: in senso stretto, superflui ai fini della procreazione e del mantenimento della prole, e in senso metaforico, poiché si ritiene di poter fare a meno tout court del principio di autorità, a prescindere da chi e come si eserciti. Questi mutamenti hanno trasformato non poco l’identità maschile minandone le antiche certezze. Gli uomini che uccidono sono dei vigliacchi, ma non sono “soggetti forti”.

Qual è la dimensione italiana del femminicidio rispetto agli altri paesi europei?

In Italia, la dimensione “nota” è la seguente: dal 1990 ad oggi, muore ogni anno un numero medio di 160 donne. I dati italiani sono simili a quelli di Spagna e Regno Unito, superiori a quelli di Germania e Francia, inferiori a quelli di Portogallo, Russia e Repubbliche Baltiche (per fare solo alcuni esempi). La caratteristica specifica del fenomeno italiano non è, a mio parere, nella sua ampiezza, ma nel fatto che, mentre dal 1990 ad oggi il numero totale di omicidi (vittime: uomini e donne) è diminuito in modo netto, il femminicidio (vittime: donne) è rimasto costante. Nel 1990 su un totale di 1.695 omicidi i femminicidi sono stati 189. Nel 2013 su un totale di 505 omicidi, i femminicidi sono stati 179. È evidente che la prevenzione degli omicidi ha funzionato, mentre quella dei femminicidi è stata inefficace. Parlo di dimensione “nota”, perché non abbiamo dati ufficiali di qualità: quindi dati affidabili, rigorosi e raccolti con continuità che ci consentano di capire.

Interventi e politiche in atto in altri paesi sul tema hanno portato dei risultati?

A mia conoscenza, non esistono in alcun paese europeo interventi mirati a prevenire il fenomeno del femminicidio (detto anche intimate partner homicide). Esistono invece in quasi tutti i paesi molti interventi, piani, leggi e servizi che vogliono contrastare la violenza “di genere” o “contro le donne”. Qui c’è, a mio modo di vedere, un primo errore di metodo, in quanto i due fenomeni (femminicidio e violenza contro le donne) sono spesso collegati, ma non sono la stessa cosa. Quindi politiche rivolte ad un fenomeno molto vasto (violenza contro le donne, che comprende anche violenza fisica non letale, stupro, stalking, ecc.) non sono necessariamente efficaci per un fenomeno molto più specifico (femminicidio, cioè violenza fisica letale). Un altro errore è pensare che la prevenzione del femminicidio debba essere fatta nelle scuole, ad esempio insegnando ai ragazzi delle medie il rispetto delle ragazze loro compagne. Questo tipo di interventi può essere utile per educare al rispetto, ma il femminicidio si previene aiutando, non le ragazze in genere, ma tutte quelle donne (di solito già maggiorenni) che hanno o hanno avuto rapporti affettivi con uomini che non accettano una separazione, divorzio o allontanamento. Sono queste le donne che hanno fattori di rischio molto alti; è quindi rispetto a queste specifiche vittime che la prevenzione più specifica (dunque più efficace) deve essere fatta. Si chiama “valutazione e gestione del rischio”.

Cosa rischiamo di perdere facendo di ogni erba un fascio?

Il tema specifico della violenza rientra all’interno del tema più ampio del rispetto dell’altro, dell’educazione alle relazioni nell’accoglienza e nella valorizzazione di ciascuno. C’è una comunità intorno alla coppia, un termine ampio che designa una famiglia allargata, gli amici e conoscenti, i vicini di casa e tutti coloro che, per rapporti personali o di vicinanza, sono legati all’aggressore e alla vittima. La maggior parte dei femminicidi sono morti annunciate, eventi che arrivano al culmine di una relazione violenta. La ricerca scientifica e le politiche di intervento dovrebbero quindi incorporare la dimensione della comunità, evitando di polarizzare l’attenzione solo sulla coppia vittima-aggressore. Non solo, le storie di ordinaria follia di cui stiamo parlando sono o sono state relazioni d’amore. La categoria anonima “partner o ex partner” racchiude una storia degenerata di innamoramento, passione: che tipo di amore è quello che, almeno potenzialmente, può trasformarsi in tragedia? Credo che rimettere al centro questa domanda sia fondamentale.

Le politiche di uguaglianza sono utili alla prevenzione dei femminicidi?

Purtroppo non c’è una risposta chiara a questa domanda, perché questa relazione tra politiche di uguaglianza e femminicidi non è mai stata studiata. Ho presentato un progetto europeo proprio su questo e, se dovessi vincerlo e quindi avere un po’ di fondi, spero di poter rispondere. Al momento posso dire questo: si vede in Europa che le migliori politiche di uguaglianza (maggiore presenza nel mercato del lavoro, migliore qualità del lavoro svolto, migliore disponibilità di servizi per bambini nella fascia d’età 0-3 anni) vanno di pari passo con una diminuzione della violenza contro le donne. Tuttavia questa relazione non è lineare come vorremmo. Le faccio l’esempio più evidente: l’aumento dei tassi di divorzio è spesso associato ad un aumento della violenza fisica e sessuale; le politiche di uguaglianza, rendendo la donna più indipendente, sono associate ad un aumento dei tassi di divorzio. Ne dobbiamo dedurre che i ruoli tradizionali erano protettivi per la donna? Quindi, che le politiche di uguaglianza hanno indirettamente fatto aumentare i tassi di violenza? Io risponderei così: le politiche di uguaglianza si traducono in migliori condizioni sociali per le donne, ma i loro effetti non sono lineari.
Caterina Giojelli