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Non la fine, ma il fine: Gesù ci indica la via della felicità

Le espressioni: «Il sole si oscurerà, la luna non darà più la sua luce, le stelle cadranno dal celo e le potenza che sono nei cieli saranno sconvolte», non sono descritte per incutere timore e terrore, né tanto meno per una sorta di minaccia che possa suscitare ansia, preoccupazione e malessere, ma solo per annunciare la grande rivelazione: «Il Figlio dell’uomo verrà sulle nubi con grande potenza e gloria». Questo evento di grazia, che la teologia chiama “parusia”, ci ricorda essenzialmente il compimento della salvezza, che non è certamente di distruzione e di morte, ma di vita e di risurrezione. Gesù ci tiene a sottolinearlo con forza e come sempre, per farsi capire meglio, si serve di esempi, di parabole. In particolare, la pianta di fico che germina e da ramo secco diventa ramo tenero, sul quale spuntano le prime foglie, è figura di quanto avverrà «dopo la grande tribolazione»; «quando vedrete accadere queste cose, sappiate che egli è vicino, è alle porte». Ci può essere notizia più bella per chi crede di sapere che Lui sta per venire? Se è vero che Dio per noi è il salvatore, perché temere? Altro che fine del mondo! Qua siamo davvero davanti all’inizio di una nuova creazione, di una vita nuova. È strano che quello che per noi cristiani dovrebbe essere un dato di fede acquisito non è per nulla conosciuto, e parliamo delle verità ultime come qualcosa di deplorevole e proprio per questo possibilmente il più procrastinabile. Le prime comunità cristiane amavano pregare con l’invocazione “Maranatha”, che non era la semplice attesa della venuta del Signore, ma molo di più, ossia manifestazione di fede nella potenza di Dio, segno di speranza nella salvezza, attestazione di amore verso il Veniente, esortazione ed incoraggiamento ad attendere il suo arrivo glorioso e, con Lui, tutti i beni necessari per una felicità che non avrà mai fine. Ma quando avverrà tutto questo? Quanto tempo ci vuole, e quanto ce ne rimane? Per Gesù la risposta sembra essere perentoria. Non è dato sapere! Questo non per il semplice gusto di tenerci sulle spine o per metterci ansia e farci vivere nell’incertezza, ma unicamente perché vuole che ci preoccupiamo dell’essenziale: saper attendere. E, come ricordato più volte da papa Francesco, in spagnolo il verbo “aspettare” si traduce con “esperar”, che tanto somiglia al nostro “sperare”. È per questo che il grande Francesco non si stanca di ripetere a noi cristiani del terzo millennio: “non fatevi rubare la speranza”. Mentre ci avviamo verso la conclusione dell’anno liturgico, cogliamo tutti questa splendida occasione di ridestare in noi e nei fratelli il senso della speranza. Siamo ancora reduci da una pandemia che, se non ci ha toccato fisicamente, ci ha certamente segnato moralmente e psicologicamente, andando a colpire proprio il senso della speranza cristiana. Sperare non è un pio sentimento, ma è la certezza che «il Signore verrà e ti salverà», è sapere, come ci hanno insegnato i nostri anziani, che «il Signore affligge, ma non abbandona». Sperare significa ancora guardare al futuro con occhi pieni di amore e di coraggio. Infatti l’attesa di cui parliamo nella spiritualità cristiana non è mai uno starsene comodamente sdraiati a guardare il cielo, magari con le braccia conserte per prendere una postura più comoda, ma è «sciogliere le catene inique, togliere i legami del giogo, rimandare liberi gli oppressi e spezzare ogni giogo? Non consiste forse nel dividere il pane con l’affamato, nell’introdurre in casa i miseri, senza tetto, nel vestire uno che vedi nudo, senza trascurare i tuoi parenti?» (Sir 58, 6-7). E allora aspettiamo e speriamo, speriamo e aspettiamo; certamente il Signore non lascerà deluse le nostre attese, ma ci darà, come promesso, «cieli nuovi e terra nuova» (altro che fine del mondo!) e con essi la gioia, la giustizia e la pace che tutti desideriamo.