Vorrei farlo con il desiderio profondo di aiutare tutti a recuperare la sacralità della nostra consacrazione e della nostra missione: non una sacralità di potere, ma quella fondata essenzialmente sul mandato ricevuto di rivelare la nostra comunione con Dio; è l’unzione, da tutti noi ricevuta in dono, che ci fa dire, con Gesù: «Chi vede me, vede il Padre». Se abbiamo perso un po’ della nostra sacralità, ciò è dipeso dal fatto che noi non riusciamo più a parlare di Dio ai fedeli, con la nostra vita. Al termine di questa celebrazione verrà distribuita a voi consacrati il testo di una meditazione che ho tenuto ai vescovi di Calabria, la scorsa settimana: è stato un invito a recuperare nell’esistenza di ogni giorno la consacrazione ontologica ricevuta con il sacramento dell’Ordine, che però, in tanti oggi – all’interno della Chiesa, come nel più ampio contesto della società civile – non riescono più a riconoscere, per tutta una serie di cause, che Benedetto XVI nei suoi appunti recentemente resi noti, ha sintetizzato con l’espressione perdita del rapporto con Dio.
Tutti i cristiani, ma soprattutto noi vescovi e presbiteri, consacrati con il sacramento dell’ordine, sappiamo che la celebrazione di questa Eucarestia è legata in modo particolare alla consacrazione del crisma, con il quale siamo stati unti il giorno della nostra ordinazione e grazie al quale siamo divenute persone sacre, cioè scelte – potremmo, per questo, dire anche separate dagli altri – proprio perché chiamate a stare con il Signore.
Mi ricordo del Vangelo di Marco: «Chiamò a sé quelli che volle… ne costituì dodici perché stessero con lui e per mandarli a predicare» (Mc 3, 13-15). Ecco il senso della consacrazione: separati dagli altri, ma per stare con Gesù e per essere inviati al popolo forti di quella esperienza, fondamentale e sorgiva, dell’essere stati con Lui.
Ricordo la definizione di sacerdote data dalla lettera agli Ebrei: «Ogni sommo sacerdote, preso fra gli uomini, viene costituito per il bene degli uomini nelle cose che riguardano Dio» (Ebr 5, 1). Solo in quest’ottica l’azione pastorale non si riduce ad un lavoro che sfiora, appena, la sfera del sacro, ma che non rimanda a Cristo né trasmette sacralità.
Volendo riflettere sulla sacralità perduta e sul modo con cui recuperarla, è a questi testi della Sacra Scrittura che dobbiamo ricorrere, in questo giorno in cui siamo sollecitati a riflettere su noi stessi e su come stiamo rispondendo alla nostra vocazione e missione.
«Chi vede me, vede il Padre», dice Gesù: stasera ciascuno di noi dovrebbe poterlo dire di sè stesso; è questo il significato del rinnovo delle nostre promesse sacerdotali.
Assieme a voi, cari fedeli, unti anche voi dal crisma di salvezza, dobbiamo riflettere sul significato della nostra consacrazione. Nel rito del Battesimo, dopo l’immersione nell’acqua, il celebrante unge la fronte con il crisma e dice: «Gesù stesso ti consacra con il crisma di salvezza». Tutto ciò, unzione e lavacro, si compie dopo che il catecumeno ha rinunciato a Satana. Il celebrante gli unge la fronte con il crisma dicendogli: «Egli stesso ti consacra con il carisma di salvezza». Non ci può essere alcuna consacrazione senza questa rinuncia a Satana e la conseguente opzione per il Signore. Dobbiamo essere consapevoli di ciò nella concretezza della vita: per difendere la nostra consacrazione, dobbiamo rinunciare a Satana e al mondo.
Nella cresima il Vescovo invoca lo Spirito perché con l’unzione crismale renda l’unto pienamente conforme a Cristo, cioè partecipe della stessa consapevolezza che aveva Gesù Cristo quando affermava di appartenere al Padre e di voler vivere per lui. Sempre nel rito della Cresima, solo dopo che il battezzato ha rinunciato a Satana ed ha emesso la sua professione di fede può ricevere il sigillo dello Spirito Santo che gli è stato dato in dono: gli accade, cioè, la stessa cosa che nei Vangeli è raccontata di Gesù. Luca pone l’episodio della predicazione del Signore nella sinagoga di Nazareth dopo il racconto delle tentazioni nel deserto, quasi a volerci dire che non ci può essere la consapevolezza di essere consacrati senza questa rottura con Satana, e che, questa, è condizione fondamentale perché la consacrazione sia sempre viva ed operante.
Nell’ordinazione presbiterale la preghiera consacratoria del vescovo e l’unzione delle mani è preceduta dall’impegno del futuro presbitero a consacrarsi a Dio come fece Cristo, cioè nella totale dedizione a lui. Anche qui viene sottolineata che la condizione di consacrato è condizione di scelta di campo, di appartenenza. Mentre unge le mani del novello presbitero il vescovo dice: l’unzione serva a custodirti. E sappiamo come la vita del consacrato sia un continuo combattimento, sempre bisognoso di custodia a vigilanza.
Nell’ordinazione episcopale, infine, all’ordinando è chiesto se vuole impegnarsi ad esercitare il ministero in modo irreprensibile. Il crisma viene effuso sul suo capo ad indicare il ministero di pastore e di guida, che egli dovrà esercitare con mansuetudine e purezza di vita. Nel ricevere l’anello è, infine, invitato a custodire la santa Chiesa nell’integrità della fede e nella purezza di vita.
Il rito che, fra poco, celebreremo ci invita ad unirci intimamente a Cristo, modello del nostro sacerdozio, e questa unione deve significare ed esprimere quella scelta di campo compiuta il giorno della nostra ordinazione, quando abbiamo scelto e promesso che saremmo stati, per tutta la vita, dalla parte di Dio, come ha fatto Gesù.
Nella preghiera di consacrazione del crisma, fra poco dirò: «L’unzione che viene fatta con esso penetri e santifichi i consacrati, perché liberi dalla nativa corruzione e consacrati tempio della tua gloria, spandiamo il profumo di una vita santa». È questo il progetto di vita del consacrato: liberarsi dalla corruzione del mondo ed essere per tutti tempio della gloria di Dio.
Miei cari fratelli, vi invito a leggere l’ultimo intervento di papa Benedetto XVI. La causa dei mali che, oggi, la Chiesa patisce va cercata nella perdita del senso della presenza di Dio nella vita dell’uomo e della società, e di ciò che tale perdita significa per la comprensione del bene e del male e dell’autentica libertà dell’uomo. La società occidentale è una società nella quale Dio è stato estromesso dalla sfera pubblica, alla quale, forse, Egli non ha più nulla da dire. E per questo, è una società nella quale si perde sempre più il criterio e la misura dell’umano.
Papa Benedetto, con il cuore spezzato, ha affermato che anche noi cristiani e sacerdoti preferiamo non parlare di Dio, perché è un discorso che non sembra avere utilità pratica. Ha richiamato tutta la Chiesa a riflettere che, se certi mali hanno preso piede nella Chiesa, la ragione va ricercata nella perdita del senso di Dio, anche nella Chiesa!
Il primo monito che, dunque, promana dagli sconvolgimenti morali del nostro tempo, è la responsabilità di iniziare, noi per primi, a vivere nuovamente di Dio, rivolti a lui e in obbedienza a lui. Dobbiamo di nuovo imparare a riconoscere Dio come fondamento della nostra vita; dobbiamo trasfondere nella nostra stessa esistenza il buon profumo di Cristo, sfuggendo la tentazione di accantonarlo, come fosse una qualsiasi vuota parola. La forza del male nasce dal nostro rifiuto dell’amore a Dio.
Dobbiamo recuperare, allora, il senso di Dio nella nostra vita. È drammatico per noi consacrati sentirci dire questo, ma è urgente e necessario farlo! È redento chi si affida all’amore di Dio. Questo è il primo passo da fare per recuperare la nostra sacralità di battezzati e di consacrati. E fidarsi dell’amore di Dio, significa rimettere nel giusto posto l’amore alle creature e a tutto ciò che ruota attorno ad esse. La nostra consacrazione nel celibato se non si inserisce in questo equilibrio tra amore di Dio e amore verso le creature, sarebbe un inutile e infruttuoso combattimento. Ognuno si interroghi su quanta strada deve percorrere perché ritorni ad essere vivo in noi il primato dell’amore di Dio e dell’amore a Dio.
L’amore di Dio si è rivelato nel Cristo, che a sua volta ha rivelato il suo amore morendo sulla croce. A questo proposito, proprio per ricuperare la sacralità della nostra vita e della nostra missione, Papa Benedetto ci chiede di verificare qual è il nostro rapporto con l’Eucarestia. E, con lo sguardo ed il cuore di chi è stato sommo pastore della Chiesa, ci ricorda che l’attuale rapporto con l’Eucaristia non può che destare preoccupazione. Il Concilio Vaticano II ha messo al centro della vita cristiana e dell’esistenza della Chiesa questo sacramento della presenza del corpo e del sangue di Cristo, della presenza della sua persona, della sua passione, morte e risurrezione.
Sappiamo come oggi ci sia un allontanamento da questo sacramento, sia per il calo dei frequentanti la messa domenicale, sia perché si sta drammaticamente perdendo la fede nella presenza reale di Gesù, sia perché la Santa comunione viene assunta senza la consapevolezza e la fede dovute, visto che, spesso, si accede ad essa solo in alcune occasioni (penso a messe rituali, o a funerali, anniversari ecc.) o come un gesto dovuto dalla circostanza, senza una preparazione spirituale e senza la confessione. Papa Benedetto scrive così: l’ovvietà con la quale in alcuni luoghi i presenti, semplicemente perché tali, ricevono il Santissimo Sacramento mostra come nella Comunione si veda ormai solo un gesto cerimoniale. C’è il pericolo che questa crisi abbia potuto colpire anche noi consacrati, nel senso che abbiamo attenuato anche noi il senso della presenza reale, con la conseguenza che la celebrazione nostra non è più il mistero più grande, che ripete il sacrificio di Gesù sulla croce, ma un rito per soddisfare la pietà dei fedeli.
Un rinnovato rapporto con l’Eucarestia ci deve condurre alla ricomprensione della nostra consacrazione, a come, cioè, possiamo vivere la vita in Cristo. Mai come oggi siamo invitati a soffermarci sulle parole che con cui i vangeli sinottici introducono l’ingresso di Gesù nel deserto dopo la consacrazione nel fiume Giordano: «Fu condotto dallo Spirito nel deserto». Se potessimo anche noi capire e volessimo accettare che conseguenza della nostra consacrazione è la «fuga mundi»! Se rimaniamo invischiati nel mondo perderemo il senso di Dio e il valore della sua presenza in mezzo a noi. A noi consacrati non è permesso un pensare che non sia secondo Dio! Non ci è permesso disattendere questa responsabilità, perché, farlo, sarebbe non accorgersi del momento difficile, a tratti anche tragico, che la Chiesa sta vivendo.
Il terzo suggerimento che il papa emerito ci dona, per recuperare la sacralità perduta, è quello di una rinnovata fiducia nella Chiesa, al cui interno, nonostante gli scandali, continua la storia di santità dei suoi figli. Lo possiamo dire con orgoglio anche della nostra Chiesa diocesana. Guardare, perciò, non ad una chiesa nuova, dice Benedetto XVI, ma ad una chiesa rinnovata, quella voluta da Cristo ed affidata agli apostoli e loro successori e che continua, oggi, a vivere e pulsare in questa nostra Chiesa, che dobbiamo amare, servire, illuminare con il comportamento della nostra vita; alla quale essere fedeli sempre, con la quale piangere e soffrire per l’infedeltà dei suoi figli. Solo un profondo amore alla Chiesa, quello che voi, cari sacerdoti, fra poco ancora professerete mentre rinnoverete le promesse sacerdotali, può farci riconquistare la nostra sacralità.
Fratelli e sorelle carissimi: è necessario che tutto il popolo cristiano preghi, oggi, per i suoi consacrati. È questa preghiera, carica di amore, fiducia e speranza che chiedo a tutti voi, popolo santo di Dio della nostra Chiesa di Reggio Calabria-Bova. Come Pastore di questa Chiesa sento di dover ringraziare tutti per lo sforzo con il quale stiamo cercando di crescere nella comunione. Grazie, perché ciascuno di noi, il vescovo emerito, i sacerdoti, i diaconi, i seminaristi, i religiosi e le religiose, i catecumeni che si preparano al battesimo, e voi tutti, cari fratelli e sorelle in Cristo, tutti cerchiamo di rendere bella e santa la nostra Chiesa. Dio ve ne renda merito e vi custodisca nel suo amore! E pregate per me.
+ Giuseppe Fiorini Morosini
Arcivescovo di Reggio Calabria – Bova