Da ieri la venerata Effigie della Madonna della Consolazione è in Duomo. Qui vi sosterrà per tre mesi, fino alla prima domenica dopo la festa della Presentazione della Beata Vergine Maria al Tempio, giorno in cui il quadro tornerà all’Eremo (quest’anno domenica 26 novembre).
Da ieri pomeriggio è inizio il via vai di fedeli nella Cattedrale, dove, questa mattina – alle 11 – l’arcivescovo metropolita di Reggio Calabria – Bova, monsignor Fortunato Morrone ha presieduto la Liturgia pontificale domenicale alla presenza del sacro dipinto di Maria. Messa anticipata dall’apertura dell’inchiesta diocesana per la causa di beatificazione di don Italo Calabrò.
Pubblichiamo di seguito l’omelia completa dell’arcivescovo Morrone pronunciata in occasione della Celebrazione di questa mattina.
Festa della Madonna della Consolazione, Liturgia pontificale domenicale: l’omelia del vescovo Morrone
Carissimi fratelli e sorelle,
abbiamo ascoltato una pericope del cap. 18° di Matteo, il quarto discorso di Gesù sulla vita della comunità cristiana, luogo concreto di relazioni umane in cui dovrebbe rendersi visibile l’annuncio del Regno: il Dio misericordioso di Gesù, il Padre di tutti. La comunità cristiana, la chiesa è chiamata ad essere il sacramento di salvezza, cioè la luce e il sale della terra, lo spazio in cui si concretizza la paternità di Dio nella sua forma possibile di fraternità, la cui norma è la misericordia di Dio.
La dimensione comunitaria dei credenti è tipico del vivere umano nella sua dimensione propriamente sociale e culturale, dalla famiglia fino alle strutture più organizzate e complesse come sono ad esempio le nazioni. Le dinamiche relazionali tra noi battezzati e credenti, come ben sappiamo, sono sottoposte a inevitabili tensioni, e possono sfociare in liti e contrapposizioni, autoreferenzialità e polarizzazioni che mortificano la comunione, l’unità del corpo ecclesiale che Gesù ha implorato dal Padre nella sua preghiera poco prima di morire.
Stare insieme non è scontato
Lo stare insieme non è scontato: le divisioni e le fratture, anche per sciocchezze, sono sempre dietro l’angolo. Che fare, come comportarsi nei momenti di conflitto e di conseguenti crisi nelle relazioni umane? Domanda questa che attraversa la concreta vita dei credenti, i quali devono constatare i limiti, le meschinità, le cattiverie e le gelosie dei singoli che impediscono la coesione e la concordia, pur confessando sinceramente la chiamata all’unità nella diversità dei volti. In realtà è proprio nella vita comunitaria che le nostre grettezze e limiti, le nostre mancanze e i nostri peccati, se vengono messi in evidenza con chiarezza davanti a Dio e ai fratelli, trovano lo spazio umano adeguato per essere affrontati e superati, perdonati in vista di una comunione mai del tutto compiuta ma sempre ricercata e invocata.
Ma qual è la dimensione evangelica di fondo che struttura e offre consistenza alla vita comunitaria, nella famiglia, nelle nostre parrocchie, e anche nella vita sociale in genere. La troviamo nel primo versetto del cap 18° che introduce il discorso di Gesù sulla vita in comune. I discepoli chiedono: Maestro … chi è il più grande nel Regno dei cieli?”. Domanda un po’ retorica dal momento che nei canoni sociali il più grande è colui che comanda. Evidentemente l’evangelista utilizza la domanda poiché sa alla radice delle relazioni e di ogni conflittualità umana c’è sempre l’orgoglioso desiderio di dominare gli altri. Gesù non la pensa così, per lui la grandezza è nella piccolezza, nella bellezza, nella semplicità di un bambino che ha sempre bisogno dell’altro, dipende da chi è più grande di lui.
Gesù ci insegna ad essere umani
A centro della comunità Gesù pone un bambino, immagine della sua vita di figlio dell’unico Padre, nostro fratello tra molti fratelli. Gesù come figlio e fratello non occupa nessun spazio e in Lui si riflette la grandezza di Dio: stare in mezzo come colui che serve. È grande chi, da Gesù, impara ad essere piccolo, o meglio chi prende consapevolezza di essere humus, umile, piccolo-bambino-figlio davanti a Dio e di conseguenza mite fratello-sorella di tutti, aperto al servizio, al perdono e alla riconciliazione come Gesù, come Maria di Nazaret, come il nostro Gaetano Catanoso, come l’indimenticato arcivescovo Ferro e a altri ancora, non ultimo don Italo Calabrò.
Ecco fuori da questa nuova visione evangelica, l’inevitabile conflittualità che accompagna le nostre relazioni si risolve sempre in prevaricazione e guerra. I membri della comunità cristiana chiamati alla santità della maturità umana nella misura di Cristo, sanno che è necessario “convertirsi e diventare bambini” secondo lo Spirito di Gesù: è un rinascere da capo ma alla vita di Dio. La piccolezza-umiltà di Gesù è parte costitutiva, ontologica della sua divina-umanità: io sono mite e umile di cuore, imparate da me ad essere umani.
Se si è evangelicamente piccoli all’interno della vita della comunità [nessuno si faccia chiamare padre, maestro e signore], allora è possibile affrontare anche i casi spinosi di chi commette delle colpe e inquina le relazioni fraterne, e così intervenire per evitare gli scandali. Chi assume progressivamente la consapevolezza credente di essere piccolo, sa anche quali atteggiamenti assumere di fronte a colui che si allontana dalla fede, come intervenire e quante volte accordare il perdono ai peccatori renitenti.
Il valore della correzione fraterna
Il brano del vangelo che abbiamo ascoltato si sofferma, dunque, su un aspetto difficile della vita comunitaria: la correzione fraterna, applicando il racconto della parabola della pecorella smarrita narrata nei versetti precedenti. Se un fratello/sorella ha commesso una colpa si deve adottare come primo passo la correzione personale; se non ascolta, bisogna chiamare in aiuto alcuni testimoni; infine se neanche in questo caso si consegue un apprezzabile risultato è bene rimettersi al discernimento e al giudizio della comunità.
Ma se il peccatore non ascolta neppure questa allora è necessario e doloroso nello stesso tempo metterlo fuori dalla comunità, considerarlo come un pagano, cioè come colui al quale è necessario evangelizzare da capo, non di voltargli le spalle: è un fratello malato che necessita di guarigione. Come tutti noi d’altronde. La correzione fraterna, infatti, non è un’azione di pulizia della pagliuzza nell’occhio del fratello, condotta probabilmente con risentimento e rivalsa nei suoi confronti, ignorando volutamente la trave che risiede nel nostro occhio.
Queste considerazioni, carissimi, evidenziano la difficoltà e la delicatezza della correzione fraterna, arte veramente impegnativa poiché si tratta di conciliare l’amore con la verità, di fare la verità nella carità fraterna e pertanto riportare alla vita chi ha fatto o sta facendo scelte che conducono alla morte spirituale e portano divisione nella comunità.
Si tratta di una prassi che assume anche una sua valenza penitenziale per ricondurre il peccatore alla sua responsabilità ma adottando il criterio della misericordia per “guadagnare il fratello”. Ecco questo è il punto: non si tratta di prendere le distanze da chi ha sbagliato, una volta che si sono percorse le vie della ragione e del buon senso. Esaurite queste, il peccatore, rimane fratello in Cristo che ci ha guadagnati tutti nella sua croce.
Il perdono, un legame che non può essere sciolto
Il perdono è il vero legame che non può essere sciolto, oltre l’aspetto chiamiamolo istituzionale, perché si è compiuto una volta per sempre e per tutti nel sangue dell’eterna alleanza. Come Gesù la comunità cristiana è chiamata all’amore creativo: non arrendersi all’evidenza della cocciutaggine del peccatore. È difficile. Ma è la via del Vangelo, poiché il fratello è più del suo peccato. E questo vale per tutti. Difficile sì, quasi impossibile, non a chi crede e sa di essere stato lui per primo perdonato, e non solo una volta. In fondo è questo il compito profetico dei cristiani nella comunità che la rendono credibile ai pagani, cioè a chi non condivide ancora la nostra speranza.
Come Ezechiele siamo chiamati tutti, ed io in modo particolare, ad essere sentinella all’interno della comunità, per vegliare, per amore dei fratelli e delle sorelle, sulla salvaguardia di tutti, perché nessuno si trovi in una condizione di malvagità, di ingiustizia, di peccato.
Per questo guadagnare un fratello o una sorella dalla sua condotta malvagia include anche la salvaguardia della comunità per evitare scandali e fratture. La correzione e la riconciliazione richiesta tra colui che è stato offeso e il suo offensore è necessaria per ricomporre l’armonia nella vita comunitaria: il peccato del singolo infatti tocca tutta la compagine della Chiesa quale corpo del Signore e di fatto diventa ostacolo, soggetto di scandalo, al cammino della vita cristiana della comunità. Lo ripetiamo: quella della correzione fraterna è un’arte difficile che richiede non solo pazienza ma anche prudenza poiché nel tentativo di sradicare la zizzania, può scattare la tentazione del pregiudizio e del disprezzo per chi sbaglia e così si rischia di eliminare il buon grano che comunque abita il cuore anche dei più ostinati. Ecco perché senza umiltà, senza la dimensione della piccolezza evangelica, senza discrezione e riservatezza, si rischia di fare guai, di porre giudizi senza appello, prendendo il posto di Dio. E tuttavia la correzione fraterna, contro ogni indifferenza individualistica, è atto di carità necessaria sia per il peccatore che scegliendo la via della morte fa del male a se stesso sia per un atto di giustizia nei confronti della comunità ferita.
La grande responsabilità affidata da Cristo alla Chiesa
Da qui “il legare e sciogliere” è una grande la responsabilità che Gesù affida alla Chiesa. Con l’autorità di Cristo la Chiesa è chiamata a dichiarare in modo autentico quali pensieri, quali sentimenti, quali scelte sono conformi al vangelo e quali allontanano da Cristo e dalla vita autentica.
L’appello alla preghiera, richiesta da Gesù, è perciò un invito alla speranza, all’azione misteriosa dello Spirito che prima o poi ferirà il cuore del peccatore e lo riporterà in senso alla comunità cristiana, sempre aperta ad accoglierlo 70 volte 7. Che cosa possiamo infatti chiedere nella preghiera se non quello che Gesù ha posto sulle nostre labbra con l’orazione del Padre Nostro: venga il tuo regno, perdonaci come noi perdoniamo ai nostri debitori. Il ministero autorevole della riconciliazione, il potere apostolico di legare e di sciogliere, conferito da Gesù a Pietro (cf. Mt 16,19) porta a compimento sacramentale, in qualche misura, l’agire misericordioso e riconciliante di ogni cristiano all’interno della comunità e negli ambiti della vita sociale. Nella forza del perdono che rilancia la vita umana e la fa ripartire, la comunità cristiana si mostra nel mondo come sacramento di salvezza di Colui che non è venuto per giudicare ma per salvare, per donarci la vita in abbondanza.
Pertanto, cari fratelli e sorelle, “non siate debitori di nulla, se non dell’amore vicendevole”. Ecco accogliamo l’esortazione di san Paolo e chiediamo a Maria, Madre della Consolazione, di aiutarci a interiorizzare l’invito dell’apostolo all’amore fraterno.