Stare al passo di Gesù, come? È Maria, la Madre, a insegnarlo. Lo ha sottolineato l’arcivescovo metropolita di Reggio Calabria-Bova, monsignor Fortunato Morrone nell’omelia pronunciata ieri mattina durante la Messa Pontificale nella Basilica Cattedrale. Ai piedi della Venerata Effigie della Madonna della Consolazione, giunta sabato in processione, il vescovo, prendendo spunto dal brano del Vangelo del giorno di Marco (Mc 8,27-35) ha spiegato, inoltre, come Maria insegni a stare al passo di Gesù, a vivere alla sequela del Signore.
Madonna della Consolazione, Messa pontificale domenica 15 settembre: l’omelia dell’arcivescovo Morrone
Il brano del Vangelo appena ascoltato conclude la prima parte della narrazione di Marco e apre alla seconda. Nella prima parte Gesù annuncia la buona novella del Regno accompagnandola con gesti miracolosi, segni della misericordia di Dio per l’umanità ferita. Da questo momento in avanti non avremo nessuna narrazione di segni prodigiosi, se non la guarigione del cieco a Gerico, simbolo del vero discepolo che, illuminato dal passaggio di Gesù nella sua vita, si mette al suo seguito verso Gerusalemme, lì dove sarà crocifisso.
Il brano evangelico odierno è dunque al centro della narrazione di Marco ed è qui che viene svelata l’identità messianica di Gesù proclamata nella confessione di Pietro. Prima di questo momento, sulle labbra delle persone che incontravano il Maestro, compresi i suoi discepoli, ricorreva la domanda: «Ma chi è costui?». Ora è Gesù che interroga i suoi sulla sua identità e lo fa nei pressi di Cesarea di Filippi, territorio di confine, religiosamente meno tradizionale. La domanda è posta anche a noi per verificare se stiamo seguendo Lui o inseguendo solo i nostri desideri, le nostre attese, i nostri progetti o frustrazioni.
Per le persone che hanno una conoscenza superficiale di Gesù, che non hanno avuto modo di frequentarlo, di stare con Lui, il Nazareno è semplicemente un profeta itinerante e carismatico che attira le folle, compie guarigioni e, per il suo stile di vita e la sua predicazione, in qualche misura mette un po’ di ansia a chi detiene il potere religioso, economico e politico. Questo è il senso della risposta data dai discepoli alla prima domanda di Gesù: «La gente, chi dice che io sia?». È interessante che i discepoli, nel riportare le opinioni degli uomini, manifestano un interesse per il sentire della gente, cogliendo con precisione non solo gli umori ma anche il loro modo di guardare a Gesù. È un’attenzione, potremmo dire una sensibilità pastorale, che non sempre noi credenti manifestiamo, eppure così preziosa per un discernimento pastorale. Ad ogni modo, i modelli profetici utilizzati dalla gente per cogliere qualcosa di Gesù sono rivolti al passato (Elia, il Battista e altri profeti uccisi), «identificando il vivo con il morto». Rileva a proposito un esegeta e maestro spirituale: «È tipico delle persone religiose interpretare il presente con il passato […] Un modo tipico per liquidare le domande di Dio e catalogarle con l’ovvietà religiosa: sappiamo già tutto di questo. … (Ma) quando l’hai catalogato l’hai già ucciso […] Non è così che facciamo anche noi con Dio, con Gesù?» (S. Fausti).
La domanda di Gesù: «Ma voi, chi dite che io sia?»
Per i discepoli non sembra essere così: alla domanda stringente di Gesù «Ma voi, chi dite che io sia?» rispondono mediante Pietro: «Tu sei il Cristo». Risposta che Gesù accoglie senza commentare. Con questa domanda, tuttavia, Gesù sembra chiederci di uscire fuori dalla formula di fede, così chiaramente pronunciata da Pietro, per verificare in noi se l’espressione sincera delle labbra trovi in qualche misura un suo fondamento su quello che Lui ha manifestato di sé. Le parole di Pietro esprimono la verità su Gesù, ma esigono di essere fatte proprie, di aderirvi esistenzialmente con la mente e col cuore: il contenuto della fede non può più essere confuso con le tante generiche opinioni della gente così diffuse oggi sui social, ma che non toccano né cambiano la vita. L’evangelista, inoltre, ci segnala che la domanda rivolta da Gesù è posta mentre erano insieme in cammino. Dietro Gesù, sembra suggerirci Marco, non si cammina da soli ma insieme, ecclesialmente insieme, per evitare una visione privata e autoriferita della fede nel Maestro secondo le proprie attese o gusti o secondo il pruriginoso chiacchiericcio e impersonale del si dice, si pensa, si fa.
Accolta dunque la risposta di Pietro, Gesù inizia un nuovo insegnamento che spiazza e mette in profonda crisi i suoi discepoli (è una crisi che continua fino ad oggi) e nello stesso tempo dà al suo cammino una nuova e decisiva direzione verso Gerusalemme, compimento drammatico del suo breve pellegrinaggio terreno. Pertanto, nella risposta alla seconda domanda «Ma voi, chi dite che io sia?», «chi sono io per te?», Gesù può verificare quanto e come della sua predicazione i suoi hanno recepito.
È bastata la frequentazione da parte dei suoi discepoli per comprendere la sua identità strettamente legata alla sua missione? Nella risposta di Pietro: «Tu sei il Cristo», il maestro di Nazareth è riconosciuto e confessato Messia, l’Unto di Dio, l’Atteso delle genti. Dovrebbe bastare per soddisfare Gesù per il lavoro fatto con il gruppo dei suoi fino a quel momento. Ma il nuovo insegnamento del Maestro, da poco riconosciuto Messia, è veramente inatteso, spiazzante, crudo. «E cominciò a insegnare loro che il Figlio dell’uomo doveva soffrire molto».
Quale via messianica
Gesù desidera che i suoi si aprano ad una comprensione più profonda della sua persona e della missione affidatagli dal Padre: la via messianica da Lui scelta all’interno di questa concreta storia non è quella del messia glorioso che sottomette ai suoi piedi i nemici di Dio, gli infedeli e tutti i cattivi di turno, ma è la via della misericordia del Padre suo che vuole che nessuno dei suoi figli e delle sue figlie si perda nell’abisso antiumano del male. È la via scandalosa della Croce, potente sapienza di Dio (1 Cor 1,24), ma stoltezza e follia per questo mondo mondano di cui siamo anche noi parte. Dalla volontà salvifica universale ed inclusiva di Dio, scaturisce la ferma decisione di Gesù di assumere i tratti profetici e paradossali della figura del Figlio dell’uomo sofferente, delineati dal profeta Isaia nei cantici del Servo del Signore, di cui oggi abbiamo ascoltato un brano nella prima lettura.
Gesù è consapevole che il sogno di Dio, il suo Regno di fraternità e pace, trova fiera e ottusa resistenza nel cuore degli uomini, in genere in tutti noi, e lo sperimenta fin dall’inizio della sua predicazione. In realtà, così come è bene rilevato dal libro della Sapienza (cfr. 1,16-2,20), Gesù sa che nelle vicende di questo nostro mondo colui che persegue la giustizia in ogni ambito del vivere umano, sociale, religioso, educativo, amministrativo, politico, è mal sopportato e di solito è rifiutato, deriso, calunniato, perseguitato, bollato come perdente. Ma la volontà salvifica di Dio è chiara, com’è palesemente rischioso il suo deciso rispetto della libertà umana. Per Gesù, dunque, è una necessità procedere in avanti per rompere il circuito velenoso del mor tua vita mea.
La sofferenza che Gesù sa di attraversare è nella logica divina dell’amore che vince ogni morte ed è contro ogni ricerca spettacolare e masochista, autoreferenziale e autodistruttiva di una visione disumana del martirio inteso come amaro destino di offerta del proprio sangue per soddisfare l’ira di Dio nei confronti dei suoi figli ribelli e peccatori. Questa visione pagana è sconfessata nella sua radice antiumana nella croce del Signore.
A questo primo annuncio della sua passione e morte Gesù arriva dopo un discernimento conseguito nell’incontro tra la sua libertà e la volontà salvifica del Padre suo, Dio della vita e del perdono, manifestata nelle Scritture e lette nella concreta vicenda degli eventi. Nello stesso tempo, come Figlio del Padre, Gesù sa che pur nel disprezzo e nel rifiuto degli uomini, nell’ora della disfatta scritta nella possibile ignominia del patibolo della Croce, somma di ogni umana ingiustizia, Dio non lo abbandonerà: è necessario per Gesù che il mondo sappia che Dio nel suo Messia non toglie la vita a nessuno, al contrario la consegna a tutti. Dio è Dono, è per-Dono eterno. È lo scandalo della Croce: sulla Croce degli uomini, non ricercata da Gesù ma da Lui assunta e ribaltandola in misericordia, Dio ha deciso di mostrare il suo vero volto di Padre di tutti, un Dio che non ci molla neanche negli abissi dei nostri e altrui ostinati e ripetuti peccati, che tanta sofferenza, divisioni, violenze e guerre producono nei giorni della nostra vita. Gesù, per amore dei figli e delle figlie del Padre suo, suoi fratelli e sorelle, è liberamente disposto a morire per noi, al posto nostro, ma senza sostituirci nella libertà e responsabilità personale.
Chi ha il coraggio di seguire un Messia già “sconfitto”?
Contro ogni attesa di un Messia vittorioso che distrugge con il soffio mortale della sua bocca i nemici di Dio per instaurare il regno sul sangue altrui, la via che Gesù ha deciso di percorrere è religiosamente scorretta. Riascoltiamo: «E cominciò a insegnare loro che il Figlio dell’uomo doveva soffrire molto, ed essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e, dopo tre giorni, risorgere».
Chi ha il coraggio di seguire un Messia, un condottiero, umanamente sconfitto già in partenza? Ed ecco ancora Pietro che anche in questo momento ci rappresenta: prese Gesù in disparte e lo rimprovera. L’apostolo, opponendosi alla volontà salvifica universale di Dio, ostacolando il percorso di Gesù verso Gerusalemme, forse non si rende conto di essere portavoce di satana. Anche noi, pur confessando con le labbra la fede in Gesù, rischiamo di dare lezioni salvifiche al Signore, ponendoci al suo posto, anzi davanti a Lui. Con Pietro allora dobbiamo accogliere il duro rimprovero di Gesù: «Va’ dietro a me, satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini». Siamo richiamati così a rimetterci alla scuola di vita del Maestro. Il discepolo di Gesù «non fa progetti al suo posto» (Maggioni), le condizioni della sequela le detta Lui, non il contrario, e sono paradossali, ma chiare, si tratta dello statuto del cristiano, eccolo: «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi sé stesso, prenda la sua Croce e mi segua. Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo, la salverà».
Il dono di sé
Prendere o lasciare. Il cristianesimo non è uno stato autoreferenziale dell’anima per una «ricerca del benessere interiore» (E. Bianchi). Al cuore dell’annuncio di Gesù, confermato dalla sua testimonianza, c’è il dono di sé capace di morire per l’altro anche se nemico. Solo questa via, divinamente generativa, è approvata dal Padre e apre al terzo giorno della risurrezione. Solo in questa via crocifissa per amore dei fratelli e rivelata in tutta la vicenda di Gesù, Dio si ritrova, abita la nostra vita chiamata ad essere finalmente umana.
Prendere allora la propria Croce non ha niente a che fare con le tante croci che ci consegniamo gli uni gli altri nella falsità e nella cattiveria dei nostri rapporti che scatenano dinamiche perverse di odio e di devastazione che mietono vittime dovunque, come sta accadendo ai confini dell’Europa e nella terra di Gesù. È la logica conseguenza mortifera e sepolcrale del trattenere la vita per sé.
Stare al passo di Gesù, l’invito e l’insegnamento di Maria
Ma è vita senza futuro. Prendere la propria Croce significa consegnare liberamente la propria vita a causa di Gesù e del suo Vangelo e come Lui non sottrarla a nessuno. Solo così la speranza di vita umana veramente rinnovata è certa perché fondata unicamente sulla fede in Gesù, sulla sua parola: fai della tua vita un dono, un permanente per-Dono, «come il Padre vostro celeste che fa piovere sui giusti e sugli ingiusti» e sarai beato, avrai vita in abbondanza, vita per sempre.
Pertanto, chi tra noi ha deciso di stare al passo di Gesù non può che accogliere l’invito pressante e materno della Vergine Maria dichiarato a Cana: fate tutto quello che Gesù vi dice. E allora non verrà mai a mancare il vino sempre nuovo e umanizzante del Vangelo sulla mensa della nostra vita famigliare, sociale, ecclesiale, cittadina. Maria, donna di fede e di speranza, donna di carità insuperabile, madre della consolazione, prega per noi perché siamo resi degni delle promesse di vita del tuo Figlio e nostro Signore Gesù Cristo.
* Arcivescovo Metropolita di Reggio Calabria – Bova
L’articolo Madonna della Consolazione, l’arcivescovo Morrone: «Maria ci insegna a stare al passo di Gesù» proviene da Avvenire di Calabria.