Gesù è chiamato a fare i conti con le caste religiose del suo tempo, sempre a Lui dichiaratamente avverse, ma verso le quali anche Lui non ha risparmiato giudizi negativi con inequivocabile chiarezza e provocante parresia. Nei vangeli di queste ultime domeniche, che si aprivano sempre con l’indicazione “Gesù disse ai capi dei sacerdoti e agli scribi”, il Maestro riconosce in loro l’icona vivente della falsità e dell’ipocrisia, di quanti cioè vorrebbero seguire Dio solo a parole, non scegliendo la via dell’umile conversione, ma della superba affermazione di sé stessi. È per questo che Egli arriverà a preferire i pubblicani e le prostitute rispetto alle ufficiali categorie delle persone pie e religiose del suo tempo. Il vangelo di oggi ci parla di farisei ed erodiani, che si presentano a Gesù per parlare con Lui. Sappiamo che tra queste due classi religiose, come d’altronde anche tra tutte le altre (scribi, rabbini, pubblicani, leviti, ecc.) non correva buon sangue, di certo non spiccavano per spirito di fraternità e comunione, cosa alquanto grave, considerata la loro appartenenza e consacrazione al tempio. Eppure in questa occasione si alleano per preparare un tranello e fare del male a Gesù. La stessa cosa avverrà anche nel momento del grande giudizio nel fantomatico processo preparato ad hoc da tutti loro, alleati insieme, per condannare all’unanimità il Figlio di Dio.
La domanda posta a Gesù circa la liceità del pagare il tributo all’imperatore non lasciava via di scampo, sarebbe bastato un semplice sì no per avere una prova certa contro di Lui. Ma Gesù percepisce la loro falsità e ipocrisia, e per questo non si fa abbindolare dai bei complimenti fatti da loro, per nulla persuasi della sua veridicità e obiettività. Egli si libera dal capzioso dilemma con un gesto molto semplice e una frase oggi proverbiale. Si fa dare una moneta, la prende in mano e la mostra agli interlocutori affinché vedano l’immagine e l’iscrizione riportata su di essa, sulla quale non ci sono dubbi: è quella di Cesare. La sua risposta sarà: “Rendete a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio”. I maligni interlocutori se ne vanno pieni di delusione e amarezza per non essere riusciti neanche stavolta nella loro malevola impresa.
A noi resta la grande lezione che non è tanto quella, data talvolta in modo semplicistico, del dovere di pagare le tasse, quanto semmai di recuperare un equilibrato rapporto tra i nostri doveri di cittadini del mondo e familiari di Dio, superando ogni visione dicotomica delle due realtà, e prendendo coscienza da una parte del nostro sempre valido e improcrastinabile dovere di collaborare all’edificazione di una città terrena sull’immagine di quella celeste, dall’altra che dedicarsi con impegno e passione alle attività socio-politiche è “la più alta forma di carità” (San Paolo VI). I cristiani dell’era post-conciliare, illuminati dalla Gaudium et spes, che resta la magna charta circa l’importanza della presenza attiva dei cristiani laici nel mondo, dovrebbero sapere che per animare le realtà terrene bisogna coltivare una spiritualità incarnata, che passi dalla contemplazione, intesa come impegno esclusivamente spirituale e religioso, all’azione, intesa come servizio alla dignità di ogni uomo e di ogni donna che abitano la città terrena.
Sia quella odierna non l’occasione per fare una bella lezione di dottrina sociale della Chiesa, quanto per far riscoprire la bellezza del messaggio spirituale contenuto nel vangelo: se è vero che quel che è di Cesare (del mondo) appartiene e va restituito a Cesare, l’uomo, creato a immagine e somiglianza di Dio, appartiene e va restituito a Dio, che resta sempre unico Creatore e Padre amorevolissimo. Chiediamo oggi la grazia di riscoprire la bellezza di appartenere a Dio e di sentirci figli creati e amati da Lui, che ha scelto di incidere la sua preziosa immagine nella nostra persona, e quindi solo in Lui e per Lui possiamo vivere e crescere sì come cittadini onesti e laboriosi, ma soprattutto come cristiani adulti nella fede e testimoni credibili del suo eterno e grande amore.