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La vita è un cammino. Quale strada scegliere?

Il gregge

{module AddThis} Forse la felicità non è solo uno stato ma un cammino in cui la ricezione del bene è solo il primo passo, e il processo viene completato quando impariamo a fare il bene che abbiamo ricevuto, è come se la felicita consista in un cammino che ci permette non solo di ricevere il bene ma di imparare a essere buoni.
È un po’ di questo che ci parla la liturgia della parola di questa quarta domenica di Pasqua. La prima lettura ci fa entrare nell’esperienza concreta dell’apostolo Pietro che interrogato, sul beneficio recato a un infermo, testimonia come quell’atto di bontà da lui compiuto non proviene da lui o da qualche altra persona ma trova la sua radice in Gesù Cristo, anzi se si vuole parlare di qualunque forma di bene o di salvezza, bisogna dichiarare con certezza che nessuna di queste cose può essere ottenuta se non da Gesù Cristo. La salute e la salvezza sono dei doni che ci ha procurato il Figlio di Dio attraverso la sua morte e risurrezione. Di figliolanza ci parla, infatti, la prima lettera di Giovanni, per l’apostolo il bene è la salvezza, di cui ci parla Pietro, vengono identificati con l’amore del Padre che attraverso questo gesto ci rende suoi figli, un amore che si è rivelato pienamente nel dono del Figlio unigenito ma che attende di essere completato dalla nostra risposta progressiva di colui che sta imparando ad amare, perché alla fine di questo percorso lo vedremo così come egli è. La figliolanza divina è il bene più grande della salvezza, è il cammino della felicità, è imparare a vivere da figli.
Il cammino di colui che si sforza di imparare a esser buono nasce da cammino di Colui che uscendo dal Padre è venuto a insegnarci questa relazione di bontà. Nel Vangelo Gesù ci parla di questa speciale relazione, ci rivela se stesso e del compito che gli ha affidato il Padre attraverso l’immagine del buon pastore. La figura del pastore è presente nella tradizione biblica, Israele all’inizio della sua storia era un popolo nomade costituito da pastori il cui compito fondamentale era quello di guidare le pecore fonte del loro benessere e quindi della loro vita, questo compito è così importante che la stessa immagine viene attribuita al re, quando Israele ha il dono di una terra tutta sua è diventa una nazione. Lo stesso ruolo viene assegnato a livello teologico a Dio che è il vero condottiero non solo del popolo eletto ma dell’intera umanità, tanto che l’autore sacro nel salmo 21 ci ricorda: “Il Signore e il mio pastore …”.
Gesù riprende quest’immagine e lo attribuisce a se stesso qualificandola con l’aggettivo buono. Nella sua dichiarazione Egli si ferma per due momenti a specificare il senso della bontà del suo essere pastore verso le pecore. Il pastore è buono perché offre la sua vita, gli importa delle pecore e sa che tra lui e il gregge non c’è una relazione di possesso interessato ed egoistico ma un’appartenenza amorosa. Il pastore è buono perché attraverso il dono della propria vita ha creato un rapporto di conoscenza reciproca, conosce le sue pecore e le sue pecore lo conoscono, questa conoscenza a cui il pastore conduce le pecore è talmente intima, forte e particolare da essere paragonata alla stessa relazione che c’è tra Gesù e il Padre. La relazione tra il Padre e il Figlio è una relazione di amore che viene nutrita continuamente dall’offerta libera di sé, così come Gesù l’ha rivelato a noi.
La bontà, dunque, consiste nel dono libero della propria vita, l’offerta della propria vita conduce alla conoscenza di coloro per cui si offre la vita, nello stesso tempo permette di conoscere colui che offre la vita e imparare da lui a offrire liberamente la propria vita, imparare la bontà. Imparando la bontà impariamo la felicità dei figli di Dio.