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La vita donata dal Pastore che sa farsi Agnello

Gesù buon pastore col suo gregge

Ecco perché non dobbiamo angustiarci quando eventuali detrattori ci attaccano: è quello il momento di dare una testimonianza più autentica della nostra speranza in Cristo e della fiducia nell’uomo che si dimostra realmente amico. Ma su chi puoi davvero contare? Quando una persona si pone in ascolto di Dio, hai la certezza di trovarti davanti a un fratello affidabile, a cui puoi consegnare qualcosa di te. È su questo crinale della relazione intima e fiduciale che si pone la rivelazione di Gesù sulla propria identità di pastore e sul suo rapporto con le pecore.
Il capitolo 10 di Giovanni presenta ampiamente l’immagine del buon pastore e questi versetti conclusivi della metafora ribadiscono l’appartenenza del gregge al pastore, che si fonda sull’ascolto della voce. Ascoltare e conoscere la voce è un costante ritornello in tutto il capitolo e indica l’unico compito richiesto ai credenti per accedere al dono di Dio. È chiaro che tale prerogativa implica dedizione ed esclusività: non puoi ascoltare validamente il Signore se non ti applichi ogni giorno; rischieresti di dare voce alle tue aspettative proiettando su Dio solo i tuoi bisogni. Inoltre l’ascolto di Lui non ammette intrusioni: il Signore ti lascia libero di non amarlo, ma non accetta di essere amato per secondo. Comprendiamo allora come il riconoscimento della voce del pastore non sia semplice, ma poiché Gesù dice «io le conosco», la certezza di essere conosciuti nell’intimo ci rassicura sul fatto che Lui ci dirà sempre parole adatte, mai sproporzionate o temibili. E ciò favorisce la sequela: «mi seguono». A questo punto, sottolineato il compito dell’uomo, Gesù indica i frutti di tale relazione: la vita piena, l’impossibilità di perdersi e l’incolumità delle pecore.
Al v. 10 Egli aveva dichiarato solennemente: «Io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza»; qui il verbo ‘dare’ rende esplicito che il dono di questa vita è conseguenza dell’agire pasquale di Cristo, Pastore che sa farsi Agnello, perché un pastore che non è disposto a sacrificarsi per il gregge è un mercenario.
Molto suggestiva, perché ha il profumo della promessa, è la rassicurazione sulla impossibilità di perdersi. La paura più grande di ciascuno è proprio quella di perdersi: da bambini temevamo di perderci in un posto deserto o affollato; diventati grandi subentra la paura di perdere gli affetti e la salute. Gesù sta dicendo che non ci perderemo mai, neanche quando umanamente ciò dovesse accadere, perché l’appartenenza al pastore darà la certezza di non essere mai soli.
Ovviamente tale verità di fede può scontrarsi con la percezione di tanta solitudine che molti costantemente vivono; in questo casi possiamo porre una differenza tra la verità percepita e quella reale: tu non sei la somma delle tue sensazioni, c’è un mistero di appartenenza che porti nel cuore anche se non lo sai, anche se le circostanze della vita te lo hanno fatto dimenticare. Pertanto la nostra salvezza non dipende dal succedersi di eventi lieti, né è garantita dalla nostra docilità e fedeltà, ma discende unicamente dall’iniziativa, dal coraggio di questo pastore che a Pasqua non ha avuto paura di farsi mettere le mani addosso per difenderci dal Maligno. Siamo noi che perdiamo gli altri quando usciamo dalla relazione con Dio e vogliamo possederli, piegarli ai nostri bisogni materiali o affettivi. Gesù schiude poi lo sguardo verso il Padre e ci invita a fare altrettanto, perché noi siamo il dono del Padre al Figlio. Cristo ha ricevuto in custodia le pecore dal Padre; c’è quindi una lunga, anzi eterna gestazione del gregge ed è questo il vero motivo per cui la vita può al massimo tosarci, ma non distruggere il nucleo essenziale della nostra appartenenza al Signore.
Trascinati dentro siffatta dinamica relazionale, le pecore entrano nella medesima comunione d’amore tra il Padre e il Figlio («Io e il Padre siamo una cosa sola»), una vetta da contemplare e da raggiungere per i meriti del Pastore-Agnello, nostra speranza.