Quanta disumana sofferenza ha dovuto sopportare prima che il pensiero di una rinascita si facesse spazio in quella vita rosicchiata dalla morte! Sì, perché secondo il libro del Levitico coloro che manifestavano malattie della pelle erano considerati morti civilmente e religiosamente, poiché il loro stato era visto come conseguenza di qualche peccato; non potevano risiedere nei centri abitati o entrare in sinagoga ma dovevano stare in luoghi separati e, se incontravano qualcuno, erano tenuti a segnalare la loro presenza perché chi aveva un contatto con loro diventava impuro a sua volta. La solita deriva della Legge che aveva finito col sacrificare l’uomo!
L’incontro col lebbroso non è preparato da alcuna indicazione di luogo o di tempo, ma si impone al maestro e al lettore con la forza persuasiva della sua necessità e della supplica che ne deriva, come accade quando un bisognoso bussa improvvisamente alla tua porta e non sei pronto o disposto a rispondere alla sua richiesta. Tante volte ci indispettiamo o sfuggiamo, ma a volte c’è qualcosa che ci convince a restare, un invito a rispondere che ci viene proprio da un modo di dire o di fare della persona che chiede aiuto e a cui ci arrendiamo. La “diversità” della richiesta del lebbroso consiste proprio nella originalità della domanda: «se vuoi, puoi». Il malato non ha dubbi sul potere taumaturgico di Gesù, ma non sa se Egli intende intervenire. È come se capisse che l’opera di Cristo non è automatica, dovuta, svendibile, ma implica l’esercizio di una libertà divina dinanzi alla quale la fede dell’uomo sta tutta nella capacità di attesa, non di pretesa. Uno spazio di attesa infinitesimale e infinito insieme, come tutte le cose importanti della vita, che si decidono in un attimo, ma dentro quell’istante riversi tutta l’amarezza del passato e la speranza per il futuro. E poi la sentenza non di condanna ma di rinascita: «Lo voglio, sii purificato!». In Gesù «non si manifesta solo l’onnipotenza di Dio ma anche e soprattutto la volontà della compassione» (Stefano Ripepi). Per lui la malattia è spazio di incontro, non causa di separazione, come insegnavano le autorità religiose del tempo, da cui Gesù prende radicalmente le distanze (questo spiegherebbe perché alcuni manoscritti per descrivere la sua reazione riportano “adiratosi”, invece che “mosso a compassione”). Egli stende la mano, evocando in tal modo la mano di Dio che compie prodigi nell’esodo liberando il popolo; tocca il lebbroso, stabilendo un contatto tra medico e malato; esprime l’assenso della sua volontà. E accade la guarigione. L’uomo, per lungo tempo convinto a causa del suo isolamento di non essere amato da nessuno, insieme alla guarigione ha cercato e trovato una relazione con Gesù: «la guarigione emerge nella sua dimensione di evento relazionale. Sua premessa è il sapere che la reintegrazione del malato nella pienezza di vita è voluta da un altro» (Luciano Manicardi).
A questo punto, stranamente, Gesù “sbuffando, mandò via” l’uomo. «Lo rimprovera di avere creduto che Dio lo aveva escluso dal suo amore. E lo caccia fuori da questa mentalità, dalla adesione a una predicazione falsa sul volto di Dio» (Fernando Armellini). Il lebbroso guarito è invitato a sottoporsi a quanto prevedeva la Legge anche per la constatazione della guarigione e deve andare a presentarsi ai sacerdoti come testimonianza per tutti, una sorta di denuncia per la società. Gesù insegna che non puoi far finta di non vedere il male e non assumere il peso del male significa mostrare di non conoscere quel Dio che lo ha assunto su di sé. D’ora in poi di nessuno potremo dire: “non merita neppure che io lo sfiori e non mi deve neanche toccare”. L’uomo guarito proclama a tutti la notizia del beneficio ricevuto, annuncia il suo vangelo e questo pone Cristo nel disagio di avvicinarsi ai centri abitati a causa della ressa che si crea per la sua fama. Ed ecco la conclusione del racconto, che vede il lebbroso reintegrato e Gesù che si fa lebbroso, perché è Lui che adesso sta ai margini. Un Dio che si compromette col male fino a sostituirsi all’uomo, sia che tu lo sappia, sia che tu lo tenga per sempre ai margini della tua vita senza mai riconoscerlo.