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La scelta e la responsabilità

Scegliere la strada giusta

{module AddThis} A volte ci sentiamo costretti a scegliere una strada nuova pur non conoscendo i dati su cui poggiare questa scelta, altre, invece, ci troviamo già sulla strada e questa si presenta così dura e faticosa che è più semplice pensare che non sia quella giusta, si tratta di confermare la scelta nata da una chiamata precedente e continuare il cammino o di abbandonare la strada e magari tornare indietro. Si crea così un conflitto che molte volte viene risolto chiamando come elemento decisivo non la bontà ma la possibilità. Non tutto quello che posso, è bene fare, poiché nella bontà si concretizza la mia possibilità e la mia libertà.
In una situazione simile si trovano due categorie di persone che ci presenta la scrittura: il popolo giunto nella terra promessa e la folla che ha visto la moltiplicazione dei pani e ha ascoltato le parole di Gesù, in entrambe le situazioni è necessario riflettere sulla bontà della scelta e non sulla possibilità. La scelta che Giosuè pone al popolo riguarda il servizio a Dio e la felicità dell’uomo. Quello che viene messo in discussione non è il culto ma la divinità a cui renderlo, bisogna tenere conto non della bontà del culto ma della divinità che lo determina. La scelta del Signore è motivata dall’esperienza storica e attraverso questa da una conoscenza di una realtà reale e spirituale. L’esperienza storica personale è costituita da tre interventi del Signore nella vita del popolo: “Ci ha fatto uscire dal Paese d’Egitto”; “Ha compiuto grandi miracoli davanti ai nostri occhi”; “Ci ha protetto per tutto il viaggio”. Il culto è riservato solo a Dio, e il Signore è Dio.
Nel brano evangelico è l’insegnamento di Gesù che chiede una scelta ai discepoli ai dodici e a Pietro, essi hanno visto come Gesù ha dato da mangiare alla folla, ma soprattutto hanno ascoltato le sue parole che hanno rivelato il significato del gesto, la sua identità e la richiesta di fede. Le parole richiedono la fede nell’identità di Gesù come pane di vita e l’accoglienza di questa identità mangiando la sua carne. Parole che risultano dure per i discepoli, difficile da comprendere. Il termine “dure” viene chiarito dall’intervento di Gesù che parla di scandalo, cioè di parole che non sono ascoltate e diventano per alcuni pietre d’inciampo sul loro cammino. Per questo Gesù sente il bisogno di chiarire non il contenuto delle sue parole ma il peso, il valore vitale. Se prima aveva parlato del “pane disceso dal cielo”, ora aggiunge che “Il Figlio dell’uomo sale al là dov’era prima”, e in questo dinamismo diventano importanti le sue parole.
L’uomo istintivamente cerca la vita, “È lo Spirito che dà la vita, la carne non giova a nulla; le parole che vi ho detto sono spirito e vita.”, attraverso questa frase dà una conclusione e una sintesi dell’intero capitolo sei. L’uomo cerca la vita, pensa che per avere la vita bisogna nutrire la carne, Gesù invita a procurarsi un altro cibo, l’unico che può dare la vita eterna, un cibo che può dare solo Lui, anzi questo cibo è Lui, la sua carne. Si crea un particolare legame tra questi tre termini: pane, carne, parole. Il pane senza le parole di Gesù è un semplice cibo per nutrire la carne, così come la carne di Gesù non è un cibo da mangiare. Le sue parole, però, sono spirito e vita, sono loro che danno significato nuovo e vivificante a queste due realtà. Esse ci mettono davanti a un bivio esistenziale, se non crediamo, possono diventare scandalo che ci impedisce di continuare la sequela, se, invece crediamo, diventano parole di vita eterna per la vita del mondo.