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Che splendida occasione ci dà la liturgia che nella sua sapienza ci chiede di fermarci e riflettere e vivere in pienezza il dono della santità attraverso i santi e i beati.
Questi amici di Dio e amici degli uomini hanno realizzato il loro percorso terreno verso la comunione con Dio, hanno lasciato il loro esempio, e continuano oggi ad accompagnarci consegnandoci il “testimone” della chiamata che non avrà fine, la vocazione alla santità.
Non perdiamo l’occasione di vivere questa vocazione riducendo quest’appello a un semplice ma riduttivo sguardo ammirato alle virtù eroiche e ai miracoli da loro operati, cadendo nella tentazione di far riferimento a loro solo come intercessori, scoraggiandoci nel perseguire una meta e percorrere un cammino che se pur difficile non è impossibile.
Non imitiamo solo i loro gesti esteriori, ma percorriamo insieme con loro il cammino aperto da Dio cercando quella strada speciale che Cristo ha tracciato solo per noi, e che il loro esempio continua a indicare.
Ritorniamo a parlare di santità come vocazione dell’uomo, che sa di essere stato creato a immagine e somiglianza di Dio, il Santo, e sentiamo forte l’imperativo: “Siate santi, perché io, il Signore vostro Dio, sono santo” (Lv 19,2).
Ascoltiamo quello che Dio dice: “Facciamo l’umanità a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza” (Gen 1,26), non come un’informazione per prendere coscienza di quello che siamo, ma come un compito, come sfida e impegno per quello che Dio ci ha chiamato e ci chiama a diventare.
La somiglianza che manca nell’atto creativo, “E Dio creò l’umanità a sua immagine; a immagine di Dio lo creò: maschio e femmina li creò.” (Gen 1,28), non è una “dimenticanza” di Dio, ma un dono assenza-presenza, una possibilità di cammino per realizzare ciò che Dio desidera per noi e insieme con noi: la santità.
Un cammino dove ciò che manca è dono, è lo spazio che Dio crea mettendo un limite alla sua azione, per far entrare la nostra risposta libera e attiva.
Lo stesso spazio che ci chiede di aprire attraverso le beatitudini perché Lui possa entrare e agire cosicché il nostro agire sia un prolungamento della sua eterna azione di amore.
Le nove beatitudini, infatti, ci indicano una felicità che nella maggior parte dei casi trova la sua radice in una carenza di cose umane, che lasciano campo libero alle cose di Dio.
Una felicità che attraverso questa mancanza inizia già ora: “Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli”; “Beati i perseguitati a causa della giustizia, perché di essi è il regno dei cieli”, che nel brano delle beatitudini creano una bella inclusione.
Nello stesso tempo ci indicano una gioia che è condivisione della stessa felicità piena di Dio nel futuro, quando, come ci ricorda S. Giovanni nella sua prima lettera noi “Lo vedremo così come egli è”, una gioia che vivremo nel momento in cui sapremo ciò che saremo, e che cosa significhi “Essere simile a Lui”.
Una promessa che richiede un impegno oggi, in questo tempo di salvezza, di possibilità, come ci indicano le beatitudini che vanno dalla seconda alla settima.
L’impegno indicato in questa parte delle beatitudini è assolutamente necessario per nutrire la speranza in Lui e serve come purificazione, tale purificazione viene sintetizzata nella nona beatitudine, che lega la felicità alla persecuzione che ha come causa ultima Gesù Cristo.
Ed è proprio qui che scopriamo, anzi che ci viene rivelato, che ogni felicità, e quindi ogni santità umana ha un preciso e riferimento nel Figlio di Dio, l’unico che orienta il percorso di somiglianza in un cammino di figliolanza, l’unico cui appartiene la salvezza poiché essa è stata realizzata con il suo sangue, poiché come ci ricorda il libro dell’Apocalisse di S. Giovanni alla domanda chi sono i santi (“Quelli vestiti di bianco, chi sono e donde vengono?”) si può dare una sola risposta: “Essi sono coloro che sono passati attraverso la grande tribolazione e hanno lavato le loro vesti rendendole candide con il sangue dell’Agnello”.