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La provocazione di Gesù: invitare diventa una festa

Gesù, dopo essersi soffermato per più domeniche sul tema della vigna, ci parla oggi di festa e di banchetto. Cambia l’allegoria, restano uguali i destinati, ossia “i capi dei sacerdoti e i farisei”, l’emblema cioè dei cosiddetti “cristiani di facciata”, ossia di coloro che non intendono sinceramente rinnovarsi e convertirsi, e così credere al vangelo dell’amore e della misericordia.

La parabola di questa domenica vuole darci innanzitutto una precisa indicazione su ciò che deve essere la nostra relazione con Dio e ci racconta di un re che intende fare un banchetto di nozze per il proprio figlio. Per questo lieto evento manda più volte i suoi messaggeri ad invitare “molti” alla festa, ma gli invitati rifiutano categoricamente. Il senso della parabola appare chiaro, esso infatti vuole farci comprendere chi è davvero il Dio di Gesù Cristo, che Matteo cerca di farci conoscere nel suo vangelo. Egli non è un Dio autoritario e superbo, ma è un re, un padre che ama i suoi figli, si prende cura di loro e li attira a sé con amore e con affetto. Anche qui, come in altre parabole, questo “Signore” ci viene a cercare, ci vuole con sé, ci invita nella sua casa. Stranamente l’invitante ha più desiderio e fretta che si realizzi questo lieto incontro di quanto ne dovrebbero avere gli invitati e beneficiari del banchetto.

Non ci può sfuggire poi un’altra fondamentale verità: il nostro Dio è Dio della gioia, della festa e lo stesso Gesù Cristo ama stare a mensa con i suoi discepoli, ed è proprio mentre sta a tavola con loro che lascia i suoi più importanti insegnamenti e la sua eredità più grande, l’Eucaristia. Egli è davvero attento alla dimensione conviviale ed è proprio in un contesto di festa di nozze che opera il suo primo miracolo, a Cana di Galilea. Non c’è occasione in cui non approfitti per sedere attorno a un tavolo con i suoi discepoli, per condividere il segno più bello e significativo del suo farsi cum-panis, ossia il vero compagno che sa esprimere il senso dell’amicizia, della fraternità, della comunione, e ci insegna il senso della fratio panis, dello spezzare il pane con letizia e semplicità di cuore. Forse proprio questo suo modo di fare, questa sua scelta di mangiare e bere con i suoi amici gli costerà una bella etichetta, che si porterà addosso per tutta la vita: “È un mangione e un beone, amico dei pubblicani e dei peccatori” (Lc 7,31).

Certo, non è il massimo per un vero Cristo, per un atteso messia. Ma Egli non se ne cura, anzi ci insegna la dimensione della comunione e lo stile della condivisione come DNA dell’essere cristiani. Ecco perché non possiamo non bandire dalle nostre vite e delle nostre comunità tutto ciò che sa di lugubre e malinconico per “scatenare la gioia”, per liberare la festa, per diffondere la letizia. Una sfida importante, improcrastinabile in un mondo che forse come mai ha bisogno di un vero e proprio Evangelii Gaudium (Francesco), della gioia di un vangelo che tocchi il cuore di tutti per riempirlo di pace e serenità.

Gli invitati rifiutano l’invito del re per futili motivi, non se ne curano e vanno chi ai propri lavori, chi ai propri affari. Ma il re non si dà per vinto, non desiste, e a chi proclama “questo matrimonio non s’ha da fare”, di manzoniana memoria, Lui ribadisce il suo ommia parata sunt, tutto è pronto, e quindi la festa si fa, costi quel che costi. Ma come fare una festa senza invitati? È sempre Lui a dare la soluzione: “Andate ai crocicchi delle strade e tutti quelli che troverete, chiamateli alle nozze”. La sala poco dopo si riempie di commensali in quanto “quei servi radunarono tutti quelli che trovarono, buoni e cattivi”. Veramente strano questo re che pur di far festa rinunzia al naturale stile preciso e selettivo per aprire il suo cuore ad un’accoglienza a trecentosessanta gradi, a un’inclusività che non lascia escluso nessuno.

Il vangelo si conclude con un’ennesima provocazione valida per tutti: Cristo invita ed accoglie tutti, anche i più lontani che provengono dalle periferie più sperdute, ma richiede che ogni invitato abbia l’abito nuziale, che non è il vestito di gala, quello magari firmato delle nostre mondane cerimonie, ma è il segno distintivo di chi ha accolto veramente l’invito alla conversione, di chi è pronto a spogliarsi degli stracci della sua vita di peccato, per farsi rivestire dalla veste nuova dell’amore di Dio che tutti invita, sorprende e arricchisce.