Il vangelo di questa domenica ci racconta l’episodio di Cesarea di Filippi, dove Pietro fa la sua bella confessione di fede sul Figlio di Dio. Il richiamo specifico a questo luogo geografico non è certamente casuale. La città, ma l’intero territorio, parla di lusso e di grandezza, di potenza e di maestà: bastava guardarsi intorno per essere abbagliati dallo sfarzo e della bellezza naturale e artistica che ogni città imperiale non poteva non avere. È in questo contesto che Gesù intende fare il punto della situazione della sua missione e fa una sorta di sondaggio di opinione circa la sua persona. Mi è sempre piaciuto questo atteggiamento di Gesù che si interroga su cosa la gente pensa di lui. Mi vengono in mente le parole di quelle persone che invece ragionano così: “Io non devo dare conto a nessuno, né mi interessa l’opinione altrui. Non devo piacere a nessuno, quindi che dicano quello che credono su di me, tanto la cosa non mi scalfisce”. Che bella lezione di umiltà invece da parte del Maestro, che pur essendo Figlio di Dio e conoscendo bene la sua vera identità, vuole capire fine a che punto la sua presenza e missione nel mondo sia stata recepita e insegna che non bisogna inorgoglirsi se l’opinione sul nostro conto è positiva, ma anche che non dobbiamo scoraggiarci se, al contrario, questa dovesse essere poco gratificante per noi, bensì considerarla motivo per un miglioramento umano e una crescita spirituale.
Gesù chiede prima: “La gente chi dice che io sia?” e poi rivolge in modo diretto ai suoi discepoli la stessa domanda. Lo fa anche qui non per avere risposte teologicamente perfette e dottrinalmente ineccepibili, come potrebbe apparire la risposta di Pietro, ma per comprendere fino a che punto siano diventate importanti la conoscenza e la relazione con Lui. Forse anche oggi Cristo potrebbe chiedere: la gente del terzo millennio che dice di me? Cosa pensa? Perché mi cerca e dice di credere in me? Forse anche qui non sarebbe difficile riconoscere che molta gente probabilmente lo fa solo perché abituata così, perché spera di ottenere qualche grazia o miracolo, ma sarebbe lecito chiedersi onestamente: per quanti la fede è diventata una questione veramente fondamentale? E la relazione con Lui quanto è vitale e personale? Lo stesso si dica di ognuno di noi, che pur ci professiamo cristiani, ma che non poche volte ci dimentichiamo che “cristiani non si nasce, ma si diventa”, confessando con le labbra ogni giorno che “Gesù è il Cristo, il Figlio del Dio vivente”, ma anche testimoniando con le opere la gioia di appartenere a Lui e alla Chiesa.
La seconda parte del vangelo di oggi è un’occasione per una bella lezione di ecclesiologia, cosa che forse mai come in questi tempi è opportuna e necessaria non solo per coloro che si solo allontanati dalla Chiesa, ma anche per quanti la frequentano assiduamente e rimangono “in senso alla Chiesa con il corpo ma non con il cuore” (LG n. 14). È un’opportunità anche per ricordare che non è possibile dire di credere in Cristo e non nella Chiesa, come recitava un vecchio slogan: “Cristo sì, Chiesa no”, quella stessa Chiesa che Gesù definisce “mia”. Basterebbe questo particolare per capire che la Chiesa non è un’istituzione umana, ma una realtà fortemente voluta da Cristo e da Lui fondata per essere strumento universale di salvezza. Gesù apprezza molto la risposta data di getto da Pietro: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”, riconoscendola non frutto della sua conoscenza e preparazione teologica, ma come ispirata dall’alto: “Né la carne, né il sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli”. In questo contesto non ci soffermiamo a riflettere sul cosiddetto “primato petrino”, che qui sembra trovare il suo fondamento biblico e che esprime la volontà di Gesù di affidare la “sua” Chiesa alla guida di Pietro e dei suoi successori, ma ci basti ricordare che essa è formata da “pietre vive, scelte e preziose”, rese tali non da propri meriti e capacità, quanto dalla professione della vera fede, che come “roccia” dà sicurezza e stabilità a quanti sinceramente la confessano con le labbra e quotidianamente la testimoniano con una degna condotta di vita.