Cerca
Close this search box.

La povertà del Vescovo Giovanni

Mons. Ferro, Arcivescovo di Reggio Calabria, e Madre Teresa di Calcutta

{module AddThis}
L’episodio mi è tornato alla memoria qualche settimana addietro, mentre apprendevo dai mezzi di larga informazione della penosa vicenda dell’Abate di Montecassino, il quale si è appropriato di cospicue somme destinate a opere di carità per trasformarle in proprietà mondane sue o di suoi familiari.
È poi di questi giorni la notizia che i responsabili economici di un Ordine religioso di glorioso nome avrebbero investito un rilevante numero di milioni di euro in speculative operazioni finanziarie, affidando il denaro a un equivoco operatore del ramo che, indagato da giudici italiani e svizzeri per operazioni truffaldine o altrimenti penalmente illecite, si è suicidato.
Cupidigia, desiderio di possesso di beni materiali grandi e tangibili, passione per la vita agiata e lussuosa, mondanità.
Gli idoli “del regno di quaggiù”; il vitello d’oro che più d’uno di noi si costruisce e adora quando dimentica che Mosè dovrà tornare giù dal Monte di Dio.
Il rovescio aureo di questa penosa e plumbea faccia della medaglia, o se vogliamo il suo luminoso contrappasso, è, nella mia memoria, la povertà del mio amato e oggi venerato Vescovo Giovanni.
Monsignor Giovanni Ferro è stato il Vescovo della mia giovinezza; quello che ha radicato nei miei giovani anni la fede che m’aveva trasmesso, prima educatrice, la famiglia: i miei nonni, mio padre e mia madre.
Voglio ricordare qui due soli esempi di questa che è virtù cristiana. Come direttore laico de L’Avvenire di Calabria e a causa di incarichi che, al tempo, ricoprivo in seno alla Presidenza diocesana dell’Azione Cattolica, negli anni settanta mi trovai a incontrarlo di frequente, oltre che nei suoi uffici in Curia, anche nel suo modesto appartamento personale, dove benevolmente in qualche occasione mi ricevette.
In una di queste occasioni “private” – ricordo che era un’ora del tardo pomeriggio – notai Benito Clementi, il devotissimo ometto toscano che gli fungeva da segretario personale e autista tuttofare e addetto alla sua persona, come non fosse loquace quale era suo fare nell’accompagnarmi all’uscita; anzi palesava una insolita mutria di viso.
Gliene chiesi la ragione; e lui sbottò nel misto di lingua e dialetto toscanaccio che usava: “e che tu vorresti?
So’ venute du’ donne poverette a pianger fame; e Lu’ l’ha dato tutto quel pochettino che c’era nel frigorifero … so’ rimaste solo due lattughe e … ‘stasera … zuppa di lattuga con pane raffermo”.
E mi salutò, sorridendo finalmente.
Gli anni del finire della sua vita, l’Arcivescovo Giovanni li trascorse nel nostro seminario, su in collina.
Occupava una linda e modesta stanza, sempre assistito dal fedele Benito.
Negli ultimi mesi, mentre le forze fisiche lo abbandonavano, trascorreva lunghe ore disteso sul suo lettino.
Così lo incontrai per l’ultima volta; il volto scarno e più pallido del solito, un filo di voce, e un sorriso.
Benito seduto su una sedia ai piedi del letto, a custodirlo.
Mi accorsi che sotto il pigiama, il petto scarno del Vescovo calzava una maglia interna dalla scollatura bucata in più punti.
Andando via, lo feci notare al solito Benito; mi spiegò che il Vescovo Giovanni non voleva sentir discutere di maglie nuove, chè il danaro che ci sarebbe voluto per acquistarle, se pur ce ne fosse stato, si poteva darlo a chi povero ne aveva più bisogno di lui.
Feci avere a Benito due maglie di lana nuove.
Non sono certo che il mio amato vescovo Giovanni le abbia mai indossate.
È probabile, anzi, che vedendole abbia chiesto di donarle a qualche misero, perché per lui erano sufficienti quelle già rose dal tempo.
Franco Marra