Ecco perché gli esegeti vedono strettamente legato il miracolo narrato nel vangelo di oggi agli insegnamenti finora dati nei capitoli precedenti del vangelo di Marco. Si tratta dell’ultimo miracolo di Gesù prima dell’ingresso a Gerusalemme. La scelta di operare tale guarigione su un cieco nato non è casuale. Gli studiosi vedono questo legame già dall’indicazione del nome stesso del cieco, Bartimeo, che letteralmente significa «figlio dell’onorato», dunque qualcuno che merita onore, riverenza, considerazione. È solo di domenica scorsa l’insegnamento a non voler essere i primi, ma a seguire la via dell’umiltà e del servizio come via della santità, dichiarando così, senza mezzi termini, che la mania di grandezza, la voglia di primeggiare ed essere sempre superiori agli altri ci rende ciechi, non ci permette cioè di vedere la realtà, tanto meno le cose e gli altri con obiettività e serenità, perché troppo ripiegati su noi stessi, troppo inclini a una cecità che ci impedisce di guardare le cose e le persone con gli occhi di Dio.
Il vangelo ci presenta il protagonista della scena dipingendolo con tre pennellate di una chiarezza lampante: egli era cieco, mendicante e solo. Davvero l’ultimo della fila, un naufrago della vita, un relitto inchiodato nel buio, gettato sul ciglio della strada. A questo quadro alquanto sconfortante si aggiunge una massa di gente che fa da muro verso Gesù, che impedisce al cieco, il quale già non poteva vedere il Signore, persino di accostarsi a Lui, di entrare in contatto diretto con Lui. E qui ancora una volta ritorna «il grande male dell’indifferenza» (Madre Teresa di Calcutta), soprattutto verso gli ultimi, i poveri, quelli che ormai con papa Francesco abbiamo imparato a chiamare «scarti della società», «le periferie» dell’esistenza umana. La gente non solo non si accorge di lui, non solo non lo aiuta e soccorre, ma addirittura lo copre, lo emargina, lo allontana e nasconde dagli occhi di tutti, perché considerato inutile e insignificante. Ma Bartimeo è caparbio, non vuole sentire ragioni, vuole a tutti i costi vedere Gesù, toccarlo, incontrarlo. E tanto fa, tanto urla e si agita, finché ci riesce. Che risurrezione sarà stata per lui la frase del Maestro: «Chiamatelo», alla quale fa eco quella infastidita degli astanti, «Alzati ti chiama!».
Si succedono altre tre pennellate dell’evangelista da sempre considerate una sorta di fotografia della «risurrezione» del fortunato portatore di handicap: «Egli, gettato via il mantello, balzò in piedi, e venne da Gesù». Il vero miracolo era stato il fatto che finalmente «Qualcuno» si era accorto di lui, facendolo sentire non più persona scomoda e inutile, ma fratello amato e per questo guardato, considerato, attenzionato. Ecco il miracolo vero, quello dell’amore, che a sua volta produce un altro gesto decisivo per la vita e il futuro di quanti accolgono la luce della fede: «Si mise a seguirlo». Ecco la vera risurrezione: lasciare il ciglio della strada nel quale forse abbiamo deciso di rifugiarci nella comodità del nostro cantuccio, rinunciando a seguire la via di Dio, a volte scomoda e faticosa, e ricevere quello in fondo tutti desideriamo: la capacità di vedere l’amore di Dio per noi e quindi scoprire il senso vero della gioia. Abbiamo aperto gli occhi, e con gli occhi inevitabilmente anche il cuore. Abbiamo scoperto la luce e con la luce la gioia di vivere da veri illuminati, perché figli e testimoni di quella luce che ha vinto le tenebre del mondo e che ormai niente e nessuno potrà mai più toglierci.