Di solito questa analogia fa riferimento, come punto di partenza, all’antropologia ponendola come base esperienziale su cui impostare il discorso su Dio. Non sempre dovrebbe essere questo il percorso cognitivo, molte volte sarebbe necessario guardare alla rivelazione che ci chiede di appoggiarci su Dio per definire la nostra umanità e la conseguente paternità e maternità. In un primo momento questo potrebbe risultare difficile, ma appena sarà fatto si scoprirà il percorso più logico. La teologia, intesa come discorso di Dio che parla e si rivela, diventa fondamentale non solo per la comprensione ma anche per la piena realizzazione dell’umanità.
Nel discorso della montagna in cui Gesù ci invita a condividere la stessa felicità di Dio, il dono viene veicolata a livello relazionale, in corrispondenza all’atto creatore che pone l’uomo come luogo di relazione, l’atto salvifico chiama tale realtà continuamente in causa. La felicità si gioca continuamente nella relazione con Dio, con il prossimo e con sé stessi. Ed è proprio quest’ultima che sovente viene trascurata, “uscire da sé stessi per ritrovare sé stessi” è un’operazione che solo l’uomo può fare, e lo può fare solo se è capace di riorientare la sua umanità riscoprendo la sua origine attraverso la paternità e la maternità di Dio. Ce lo ricorda il profeta Isaia quando ci invita a far uscire la domanda, che si pone Sion, dal testo e porla nella nostra esistenza. Nella mancata felicità ci capita di chiamare in causa Dio, che si è dimenticato e ci ha abbandonato, e nella domanda retorica che fa riferimento alla nostra esperienza più grande si apre lo spazio in cui il Signore entra non solo per darci sicurezza ma soprattutto per rivelare e rinnovare ogni amore materno: “Anche se vi fosse una donna che si dimenticasse, io invece non vi dimenticherò mai”.
Anche la riscoperta della paternità di Dio passa attraverso la relazione con sé stessi, una relazione ancora una volta descritta dall’evangelista Matteo attraverso le categorie della “giustizia”, e del “bisogno”. Se, infatti, il rapporto con il prossimo concludeva il capitolo quinto del suo vangelo chiedendo al discepolo la ricerca della perfezione del Padre, l’esortazione che apre il capitolo sesto gli chiede di praticare la “giustizia nel segreto”, questa giustizia si pratica nelle tre devozioni fondamentali dell’ebraismo che non fanno altro che concretizzare le tre relazioni fondamentali: elemosina, il rapporto con gli altri; la preghiera, il rapporto con Dio; e il digiuno, il rapporto con sé stessi. Nel sottolineare il rapporto con Dio Gesù fa riferimento alla preghiera del “Padre nostro”, che possiamo definire la preghiera della rivelazione poiché manifesta l’attributo essenziale del Padre: “Il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno prima ancora che gliele chiediate”. Questa informazione diventa importante per la pratica del digiuno, in cui il credente attraverso la privazione del cibo (o di altro) fa esperienza dei suoi limiti e riesce a cogliere la presenza di Dio nella sua vita. La relativizzazione dei tesori della terra e l’accentuazione dell’occhio semplice che illumina il corpo ci portano alla giusta considerazione dell’uomo come “servo” che inizia la pericope evangelica di questa domenica. Considerando che il termine servo viene usato per fare percepire sé stessi in rapporto di dipendenza, Gesù ci dà due punti di riferimento, l’opposizione tra Dio e il denaro, e la preoccupazione del “bisogno”. Per quanto riguarda la prima indicazione l’opposizione è netta, se pensiamo che la nostra vita dipenda dal denaro, abbiamo automaticamente escluso Dio. Nella seconda indicazione Gesù ci fa comprendere come Dio entra nel nostro intimo, dove la preoccupazione giace e spinge, e ci chiede di non relativizzare la nostra vita leggendola solo attraverso il cibo e il vestito. Ci esorta ad avere un occhio semplice capace di far entrare nel corpo l’attenzione e la cura che Dio ha per ogni sua creatura. La prima lettura di sé stessi è la fiducia in Dio da cui dipende la vita e il corpo, l’unico che può aggiungere giorni alla nostra vita. In quel luogo angusto dove risiede la preoccupazione dell’uomo in riferimento a sé stesso deve entrare la rivelazione di un Dio che si manifesta come Padre che conosce i bisogni dei suoi figli. A questo punto, e attraverso questa rivelazione, diventa quasi un’esigenza scoprire a livello intellettivo ed esistenziale il significato dell’esortazione di Gesù: “Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia e tutte queste cose vi verranno date in aggiunta”. Alla base di ogni ansia e pena umana, di ogni desiderio, ma soprattutto quasi come un pensiero costituito ci sia la ricerca di Dio, in questo modo e solo in questo modo si può creare “lo spazio” della figliolanza che è l’unico luogo capace di accogliere la paternità di un Padre che è disposto a dare continuamente e con generosità tutto quello che i figli hanno bisogno, ma anche di un Padre che chiede che quello che viene dato non solo sia utile ma che venga accolto nel modo giusto. Così sappiamo che se il Padre conosce i bisogni dei suoi figli, la ricerca e richiesta sono necessarie affinché nell’uomo si costruisca lo spazio dell’accoglienza.