«La conversione e il perdono dei peccati» sono doni del Risorto che l’annuncio della Chiesa deve rendere sempre vivi e operanti, a partire da Gerusalemme, dal luogo della Pasqua, perché, soltanto incarnando nella propria storia il mistero pasquale, il discepolo sarà fedele al mandato ricevuto dal Maestro. La solenne dichiarazione di Gesù impone ai cristiani una seria riflessione sulla propria capacità di testimoniare e propagare il dono della misericordia. Mi sento salvato e bisognoso di salvezza? Fuori da tale percezione di sé la misericordia è solo un bel concetto teologico e spirituale; affinché essa sia il motivo della nostra gioia, è necessario rileggere la storia personale come il dispiegarsi di questo dono nelle alterne vicende della vita, dono paragonabile alla cura costante e multiforme che un genitore sa prestare verso il figlio. È dunque la misericordia la cura specifica che il cristiano può offrire all’uomo del nostro tempo; tutte le altre frontiere dell’impegno cattolico nel dibattito culturale e nel rinnovamento della politica, dell’economia, della società in generale, devono essere ordinate a far conoscere e proporre la misericordia di Dio come unica possibilità di vita e sviluppo sostenibile. È la misericordia che sostiene ogni relazione, e non è un preconcetto confessionale eleggerla a principio cardine anche della vita civile!
Pasqua e annuncio del perdono sono i contenuti della testimonianza dei credenti, costantemente assistiti dallo Spirito, per opera del quale saranno «rivestiti di potenza dall’alto». Se solo ci rendessimo conto che lo Spirito è la forza più grande di cui disponiamo! Non ci preoccuperemmo più di essere minoranza nel mondo, ma saremmo consapevoli che sono proprio le minoranze nella storia ad assumere la guida degli autentici processi di rinnovamento. Cosa fa lo Spirito in me? Probabilmente non lo sappiamo, e non semplicemente perché esso è un mistero d’amore insondabile, ma più banalmente e tragicamente perché non lo invochiamo abbastanza. Mi piace vedere nei gesti successivi di Gesù proprio una solenne liturgia preparatoria alla effusione dello Spirito. C’è bisogno anzitutto di essere condotti fuori, come Israele dalla terra di schiavitù, per ricevere il dono di Dio. Fuori dalle abitudini e anche dalle attese, perché il dono del Signore implica un totale rinnovamento di mentalità e di vita. Le mani alzate evocano il gesto di Mosè che intercede per il popolo; è la preghiera che il nostro Mediatore presenta costantemente al Padre per noi. Ora, questa preghiera coincide con una benedizione. Finalmente si compie quella benedizione che Zaccaria a causa della sua incredulità non poté dare al popolo; è l’assicurazione che il volto di Dio è sempre benevolo con l’uomo. Il distacco di Gesù proprio nell’atto della benedizione rende eterno tale gesto, ora cristallizzato non solo nella memoria dei discepoli e di tutta la Chiesa, ma soprattutto nell’agire di Dio a favore delle creature. Noi siamo il frutto della perenne benedizione di Cristo, che si è allontanato solo fisicamente da noi. Il distacco era necessario per rendere possibile la sua nuova modalità di presenza in mezzo a noi attraverso lo Spirito; era necessario perché l’assenza dilata il cuore, suscitando il desiderio dell’Assente. Paradossalmente, un Dio a portata di sguardo e di mano prostrerebbe il nostro anelito verso di Lui. La prostrazione che invece segue è quella che dice adesione della vita a Cristo, riconoscimento della sua signoria, attesa fiduciosa dei suoi doni dall’alto. Inizia la vera missione della Chiesa, rendere presente Colui che è assente visibilmente, ma il cui Spirito pervade l’universo. Ciò è fonte di gioia, tratto tipico di Luca, che ci consegna una verità fondamentale: la gioia non è appagamento dei sensi, ma confessare una presenza che ti abita dentro e muove i tuoi passi verso fuori.