Tuttavia i discepoli, che comprendono solo fino a un certo punto questa profonda comunione che Gesù instaura con la gente, sembrano volerlo riportare all’evidenza di un tempo che passa inesorabilmente: è sera e la folla va congedata «per alloggiare e trovare cibo». Ci pare di sentirli i Dodici: ‘Gesù, non è più il momento di fare poesia; è stata bella questa giornata e a ciascuno rimarrà un ricordo indelebile; adesso però bisogna tornare alla vita!’. Forse quella che Cristo propone non è vita? Eppure anche oggi molti fedeli, persino dopo un’esperienza spirituale significativa e ricca di spunti per la loro esistenza quotidiana, sono tentati di dire che la vita è un’altra cosa, quasi che la relazione con Gesù nella preghiera e nella liturgia comporti una fuga dalla realtà e la proiezione in un mondo parallelo. La «zona deserta» in cui si trovano sembrerebbe confermare la preoccupazione dei discepoli, che giudicano il contesto geografico come inospitale alla vita. Siamo qui in presenza di un tipico caso di discernimento errato, non autenticamente spirituale. Ogni lettura della realtà deve tener conto della ‘incognita’ Cristo; se c’è Lui, se si decide di affidarsi a Lui, la sua soluzione supera tutti i tentativi umani fallimentari. Infatti la risposta di Gesù è alquanto sorprendente, al di fuori di ogni logica mondana: «Voi stessi date loro da mangiare». L’esegesi ci dà una doppia possibilità interpretativa del pronome ‘voi’, che può essere considerato soggetto o oggetto della proposizione. Nel primo caso, gli apostoli dovrebbero incaricarsi di una distribuzione che, prima ancora di verificare la disponibilità di cibo residuo, appare impossibile dato il numero elevato di persone. Nel secondo caso, l’impegno richiesto da Gesù è totalizzante e apparentemente assurdo: diventare cibo per gli altri. Non ci sorprende allora l’obiezione dei Dodici, che forse intuiscono la profondità dell’invito del Maestro, la chiamata ad una donazione piena, ma si lasciano prendere dalla paura di non farcela o di un coinvolgimento personale troppo stringente. Quello che c’è è poco; non si può porre rimedio alla scarsità delle risorse. È questo un tema attualissimo, ma sappiamo bene come oggi il problema non sia l’insufficienza dei mezzi di sostentamento o economici, bensì la mancanza di un serio e radicale stile di condivisione. A questo punto colpisce la calma di Gesù, che nonostante le opposizioni garbate ma ferme dei Dodici non arretra dal suo proposito. Il comando che dà è a sua volta un invito alla calma e alla fiducia: «fateli sedere», cioè disponete il popolo in atteggiamento di apertura verso Dio e di attesa speranzosa del suo intervento; «a gruppi di cinquanta» richiama la dimensione comunitaria della fede, che rende il dono del Signore un ponte verso il fratello, altrimenti il dono o non è tale o viene contraffatto. Ma l’intento di Gesù è davvero quello di risolvere il problema della fame? Se nell’immediato sembra di sì, dalla lettura delle tradizioni evangeliche sulla moltiplicazione dei pani sappiamo come il miracolo di Cristo sia un segno che indica la Provvidenza di Dio e che vuole suscitare la fede. Qui la solennità dei gesti compiuti fa cogliere come la moltiplicazione sia una vera e propria liturgia, che poi il popolo cristiano ripeterà nella celebrazione eucaristica, un dialogo col Padre con un movimento sia ascendente, in cui si offre a Dio la povertà dei mezzi umani («alzò gli occhi al cielo»), sia discendente («recitò su di essi la benedizione»), sia incedente, cioè un movimento in avanti, perché il dono va poi immesso nella vita concreta della gente. Di questo si occupa direttamente Gesù, che mediante l’uso dell’imperfetto («li dava») viene quasi fotografato nell’atto di donare ad uno ad uno i pani e i pesci. Li affida ai discepoli perché a loro volta li distribuiscano alla folla: è la legge della mediazione, per cui il dono di Dio noi lo riceviamo da un altro, affinché impariamo a nostra volta a farci dono.