L’evangelista, attraverso l’immagine dell’entrata e dell’uscita dall’Egitto e il riferimento alle Scritture, presenta Gesù come Colui che ripercorre il cammino del popolo: Abramo, i figli di Giacobbe e Mosè scesero in Egitto e da lì risalirono; Israele sperimenta proprio in quella terra di schiavitù la sua rinnovata condizione di figlio amato e liberato, come proclama il profeta Osea («dall’Egitto ho chiamato mio figlio»); Cristo è il Messia nel quale si compie definitivamente l’evento della liberazione. Perché ciò accada, anche il Figlio deve attraversare le acque della morte, senza che questa abbia l’ultima parola, e la sua risurrezione sarà l’approdo alla terra promessa del Regno divino che Egli è venuto a realizzare.
Il racconto presenta dunque un marcato richiamo alla Pasqua di Israele e a quella di Gesù, così come alla nostra. Entrare in Egitto anche per noi significa entrare in una qualche morte, ma poiché è il Signore a chiedercelo, tale esperienza diventa il principio di una vita nuova. Infatti ciò che più ci ripugna e che eviteremmo molto volentieri, sacrifici, rinunce e umiliazioni, sono quell’Egitto in cui, soffrendo, possiamo elevare il nostro grido al Padre e tornare a sentirci figli, attendendo con fiducia la sua liberazione. Quando invece stiamo bene, corriamo il rischio di voler fare a meno del Signore, paghi delle nostre illusorie gratificazioni. Nelle situazioni di precarietà, solo l’obbedienza alla Parola ci consente di dare un senso alla nostra morte spirituale. Giuseppe ancora una volta viene presentato come modello di un’obbedienza che si pone a custodia della vita; dalla sua testimonianza risulta infatti che soltanto l’obbedienza al piano di Dio ci rende autentici promotori della vita, altrimenti agiamo solo per istinto, senza traghettare la nostra esistenza e quella delle persone affidate alla nostra responsabilità verso la promessa di Dio. È questa la grande sfida per le famiglie di oggi: dare priorità al piano di Dio e non alle esigenza indotte dalla mentalità odierna.
La Santa Famiglia rimane immigrata in terra straniera per un tempo indefinito, quasi a significare che occorre attendere con pazienza i tempi di salvezza di Dio e non i nostri, che sono in genere frettolosi e possono condurre a scelte premature e controproducenti. Questa pagina è modernissima, in quanto tutte le famiglie che sono state costrette ad emigrare possono rispecchiarsi in essa, sentendosi comprese e appoggiate da Gesù, Giuseppe e Maria, nostri fratelli stranieri. Tale ‘stranierità’ deve permanere come condizione permanente dell’uomo di fede, chiamato continuamente a uscire da se stesso per realizzare la comunione con l’Altro e con l’altro dal volto uguale al mio; essa è condizione necessaria anche per ogni nucleo familiare, in cui i singoli membri devono assumere come prima fondamentale sfida la capacità di andare verso gli altri.
Segue poi l’ulteriore sfida di riconoscere e affrontare i pericoli che attentano alla vita e all’amore della famiglia; una terza sfida consiste nel saper riconoscere i segni che indicano un tempo nuovo di vita nella piena signoria di Dio. Giuseppe raccoglie tutte e tre le sfide e dà questa impostazione di fede alla sua famiglia. La sua doppia obbedienza al messaggero divino si concretizza nel ripetersi entrambe le volte dei medesimi verbi e oggetti: «si alzò… prese il bambino e sua madre».
In tali formulazioni notiamo un primo aspetto significativo, ossia la portata teologica delle espressioni, che menzionano il verbo della risurrezione e la compresenza del bambino e della madre, sempre insieme, come a dire che chi nella vita dà spazio a Gesù e a Maria è certo di risorgere dalle morti che l’esistenza comporta. Ancora, osserviamo come il ricorrere di uguali azioni e soggetti ci richiami al fatto che la santità di una famiglia si costruisce nelle cose ordinarie, che potrebbero apparire banali, ma vissute ogni giorno sempre più consapevolmente e profondamente, consentono di stare alla presenza di un Mistero che rende la famiglia non solo grembo in cui la vita si genera, ma culla in cui l’Amore costantemente si contempla, si vive e si serve. «Andò ad abitare in una città chiamata Nàzaret»: la Santa Famiglia prende dimora nel luogo stabilito dalle profezie, invitando ciascuno di noi a dimorare nel cuore di una comunione intima con Dio, che non è solo slancio di sentimenti verso Lui ma soprattutto, come insegna Giuseppe, sforzo di adeguare la nostra volontà alla sua. Questo è il Natale!