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Umiltà, Cenerentola del nostro tempo

Lavanda dei Piedi umiltà

{module AddThis} Se si consulta velocemente un dizionario si può notare come il significato, del sostantivo umiltà e dell’aggettivo umile, è usato per indicare uno stato di povertà e semplicità, un atteggiamento modesto e sottomesso di chi è consapevole dei propri limiti. Senza voler andare oltre in questa disamina ci sono abbastanza elementi che ci suggeriscono una domanda sulla mancanza di fascino che l’umiltà ha nella nostra società: perché è importante essere umile, cosa ci guadagna l’uomo acquisendo questa disposizione e tenendo questo atteggiamento? Ma se vogliamo andare otre, l’umiltà è qualcosa d’innato o un percorso educativo che richiede disponibilità impegno e fatica? Rispondendo solo attraverso l’osservazione dell’esperienza dell’uomo e del suo percorso storico, finiremmo dentro un imbuto, riducendo l’umiltà, anche in questo caso, in qualcosa di soggettivo e relativo in cui il “secondo me” impera. Molto più interessante e soprattutto più utile ricondurre il termine nel suo contesto naturale, che prevede l’ambito della relazione, non solo a livello umano ma soprattutto a livello divino. Si può parlare di umiltà nella misura in cui questo termine prevede un processo di somiglianza che l’uomo stesso deve acquisire nei confronti del Creatore, e che deve avvenire necessariamente attraverso il Salvatore. Per questo motivo è significativa l’espressione che Gesù stesso pronuncia e che viene riportata nel vangelo secondo Matteo: “Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me che sono mite e umile di cuore” (11, 29). Da qui possiamo dedurre che l’umiltà è certamente una caratteristica necessaria al cristiano e che la sua origine e la sua fruibilità si trovano nell’abbassamento di Gesù Cristo che “pur essendo di natura divina non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma annientò sé stesso prendendo la natura di servo diventando simile agli uomini; e apparso in forma umana umiliò sé stesso facendosi obbediente fino alla morte, e alla morte in croce” (Fil 2, 6-8). L’azione salvifica di Gesù non è solo la fonte da cui attingere ma anche il modello da tenere come riferimento, tenendo presente la citazione della lettera ai Filippesi possiamo notare come l’umiltà sia un elemento essenziale nella storia della salvezza, come elemento fondamentale nella relazione con Dio, anzi se proprio vogliamo essere più precisi e l’unica forma di accoglienza del dono di Dio.
Il tema dell’umiltà è centrale nel messaggio delle letture della XXII domenica di quest’anno liturgico. Il libro del Siracide condanna ogni pretesa orgogliosa e indica la grandezza umana nell’umiltà, la finalità dell’atteggiamento umile è l’amore degli uomini e il gradimento e la grazia di Dio. Anche Gesù, come abbiamo visto, si trova a parlare dell’umiltà, non come forma di galateo, ma facendo un discorso più ampio legato alla storia della salvezza. L’occasione in questo caso gli viene data mentre si trova a pranzare a casa di un fariseo, osservando come gli invitati scelgono i posti dice loro una parabola. Il discorso si sviluppa in due tempi: in un primo momento il riferimento è agli invitati, in un secondo tempo l’invito viene rivolto a colui che offre il banchetto, attraverso questo sviluppo argomentativo Gesù intende fa comprendere che la parabola è raccontata tenendo conto della duplice natura relazionale dell’uomo: il legame con Dio e il legame con il prossimo, sottolineando che queste due dimensioni relazionali anche se possono sembrare distinte non sono mai separate. In un primo momento Gesù fa osservare che l’invitato deve prendere coscienza del suo “status” riconoscendo a colui che l’ha invitato l’autorità di accogliere i suoi ospiti nella sua massima autonomia. Il mettersi all’ultimo posto più che una scarsa considerazione di sé accentua la libertà che viene riconosciuta al padrone di casa di assegnare i posti secondo la dignità che lui ha stabilito, facendo capire in questo modo che la dignità non è qualcosa che noi possiamo pretendere ma che egli riconosce. L’esaltazione, il vanto, l’orgoglio impediscono a Dio di salvarci dallo stato in cui il suo unico Figlio si è abbassato per salvarci, manchiamo dal luogo in cui ci ha dato appuntamento.
Il secondo momento della parabola chiede al lettore di cambiare il soggetto di identificazione, non più l’invitato ma colui che offre il banchetto. In fondo tutto l’insegnamento di Gesù si gioca su questo scambio di ruoli che caratterizzano ogni termine di paragone: “Amatevi come io vi ho mati”; “Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori. In questo caso l’atteggiamento di umiltà è garantito dallo spazio creato dalla gratuità. La ricompensa calcolata, infatti, riempie uno spazio che per sua natura dovrebbe restare vuoto nell’attesa della risurrezione dei giusti. Anzi è proprio questa mancata ricompensa a contribuire alla giustizia dell’uomo. È chiaro che questa seconda indicazione di Gesù all’uomo che offre il banchetto ha alle spalle un suo cammino teologico. Già nell’Antico Testamento infatti il circolo relazionale tra l’uomo, Dio e il prossimo faceva riferimento non a un sentimento astratto e arido di presunta sensibilità, ma una generosità che si concretizzava nel prossimo: “Dovrai assolutamente restituirgli il pegno al tramonto del sole, perché egli possa dormire con suo mantello e benedirti. Questo ti sarà contato come giustizia agli occhi del Signore, tuo Dio” (Dt 24,13). Invitare colui che non ha da restituire e restituire il pegno che abbiamo preso è un atto di giustizia davanti a Dio, permettere a Dio di benedirci e a noi di accogliere la benedizione.