Il padre della parabola si trova dinanzi a due prese di posizione tanto sconcertanti quanto inattese. Si può presumere che egli abbia educato i figli col medesimo metro, stabilendo un dialogo schietto e trasfondendo loro i valori della condivisione, libertà e responsabilità. Colpisce anche il fatto che egli parli col cuore in mano, facendo trapelare la pienezza dei suoi sentimenti di gioia e tenerezza. A fronte di tanta sincerità e magnanimità, appare inspiegabile la presa di distanza dei figli dalla casa e dalla mentalità paterne, ma possiamo iscrivere tale scelta nel mistero della libertà umana e del desiderio di autonomia tipico dei giovani, che a un certo punto vogliono camminare con le proprie gambe e farcela da soli, percependo come indebita ingerenza un consiglio non richiesto o addirittura la semplice presenza del genitore.
Ciò risulta evidente per il figlio minore, la cui richiesta di eredità spinge fino all’estremo il bisogno di autonomia, poiché presuppone che il padre sia come morto. «Pochi giorni dopo…raccolte tutte le sue cose, partì». Se sorprende il cambio di atteggiamento del ragazzo, espresso solo adesso ma probabilmente covato da tempo, ancor più strabiliante è l’inerzia del padre. Perché non ha fatto nulla per fermarlo? Eppure, considerata la sua esperienza di vita e la conoscenza del figlio, aveva sicuramente previsto che questi si sarebbe perso.
C’è una libertà umana insondabile, ma esiste anche una libertà divina altrettanto oscura per noi. Non che un genitore approvi la rovina dei figli, ma questo genitore celeste rispetta la libertà umana malata che giunge a considerare Dio l’origine dei propri mali e a rinnegarlo. Che tristezza vedere oggi tanta gente che tratta Dio da avversario della propria libertà: la parabola mostra proprio il contrario! Eppure immaginiamo che il Padre dissemini il sentiero del figlio, e persino il burrone nel quale precipita, di nostalgie, richiami, appelli alla conversione.
È la mancanza di pane che induce il giovane e ‘convertirsi’; non è la sua una conversione morale o l’assunzione responsabile del ruolo di figlio, ma il bisogno più stringente, quello di mangiare, che lo fa rialzare e mettere in cammino. Il Padre accetta un cambiamento del tutto acerbo e interessato: a Dio non importa se hai le carte in regola, ma che ti lasci guardare e amare da Lui. Probabilmente, tra la vergogna e la paura, il figlio non guardò il padre negli occhi, mentre questi lo vide da lontano e con la sua corsa colmò la distanza che il figlio aveva creato e che non avrebbe più potuto eliminare. Qui capiamo l’eccedenza della misericordia: certe fratture che noi creiamo sono per sé insanabili e solo per volere divino esse si ricompongono; il segno di tale guarigione è la dimensione della festa.
È proprio in questa festa, organizzata personalmente dal padre, che il figlio maggiore non sa e non vuole entrare. Egli era rimasto col genitore, ma il suo cuore era lontano da lui. Distanti dal Padre, siamo preda dei peggiori sentimenti che distruggono la fraternità, come l’invidia. Infatti il figlio maggiore non pronuncia mai né la parola ‘padre’ né la parola ‘fratello’, solamente… straparla. Non può dire parole di vita né accogliere e generare vita chi non si apre alla dimensione della gratuità e pensa invece che l’affetto si compri a forza di prestazioni, senza metterci il cuore. Anche per chi in tal modo dimostra di essere vittima di se stesso, l’antidoto che Dio propone è sempre l’invito alla gioia, perché Egli sa che i figli ribelli sono in realtà figli richiedenti amore.
Addirittura il padre «uscì a supplicarlo»; la condiscendenza divina arriva al punto di assumere il ruolo dell’orante, come se fosse il Signore a pregarci di accettare la sua presenza e la sua logica. Egli non si sottrae neanche ad un dialogo estenuante e apparentemente sterile con un figlio talmente presuntuoso e rabbioso da ergersi a giudice del padre! Il finale è aperto, come fino all’ultimo sarà aperto il cuore di Dio ad effondere il suo amore che perdona.