Concluso il ciclo di incontri con le zone pastorali della diocesi. Cosa si porta dentro da queste settimane di lavoro?
Dopo l’esperienza di Cucullaro, non bisogna perdere di vista gli obiettivi che, come comunità diocesana, ci siamo dati: promuovere il laicato nella responsabilità della Chiesa e condividere i suggerimenti pastorali superando la logica delle indicazioni calate dall’alto. Questi due obiettivi ne sottendono un terzo, ossia che oggi è totalmente inutile pensare a convegni che siano pura accademia.
Gli incontri diocesani devono sempre tradursi in scelte pastorali. Questa «traduzione» secondo lei è in atto?
Si parla che la Chiesa non è solo istituzione, ma che la Chiesa è comunità: allora se questo è vero, il laicato deve assumersi la responsabilità di una progettazione condivisa su quale direzione devono prendere i cammini ecclesiali.
Questo può avvenire soltato se aumentano di quantità e di qualità gli incontri tra vescovo e laici; i sacerdoti possono “filtrare” alcuni passaggi, ma questo non può bastare. L’attesa da questo percorso è che scaturisca un confronto schietto e sereno tra i fedeli e il vescovo per determinare insieme le scelte della nostra diocesi.
Qualche difficoltà nell’incontrasi c’è stata. Secondo lei perché?
Sento spesso invocare la «sinodalità»: per giungere a un “raduno” però serve avere la disponibilità di incontrarsi. Logisticamente Cucullaro è risultato scomodo? L’idea era quello di staccare dalla quotidianità per favorire anche la logica dei rapporti umani, della condivisione di uno spazio e di un tempo.
Credo che abbiamo raggiunto la maturità di ritenere poco proficui tutte le riunioni in cui ciascuno, per i propri impegni, vive gli incontri con un piede fuori dalla porta e con gli occhi fissi sull’orologio.
Cosa manca per fare questo salto di qualità?
Manca la convinzione profonda che ogni laico possa cambiare l’indirizzo delle scelte della Chiesa diocesana. Il vescovo si arrogherà di rivedere quello che il laicato dice soltanto laddove venga intaccata la fede o i costumi. Quello che mi sento di dire: il vescovo è quì per imparare; da parte nostra c’è la massima disponibilità a condividere un’idea, un obiettivo.
Certamente, alcuni temi sono stati affrontati con grande maturità dalle parrocchie presenti. Tra questo c’è anche la preparazione al sacramento del battesimo.
Con le parrocchie si è condiviso di riportare la celebrazione del battesimo in modo comunitario alla domenica; certamente gran parte delle riflessioni dei presenti sono stati applicate ai cammini di preparazione al sacramento. Non si può immaginare di avviare percorsi che siano duraturi nel tempo se non si parte da lontano nel rapporto di fiducia e accompagnamento con le giovani coppie. Altra idea emersa è quella di distribuire un dossier che informi sul valore del battesimo a tutti gli operatori pastorali per riscoprirlo sotto il profilo biblico, teologico, ecclesiologico e pastorale. Ecco, la vera sfida è l’inserimento nella comunità.
Le giovani coppie rappresentano da sempre un “anello debole” nei cammini parrocchiali. Come poter entrare in contatto con le nuove famiglie?
Partendo dai gesti più semplici di accoglienza: dopo il matrimonio, ad esempio, andare a trovare la nuova coppia nelle loro nuova casa. E poi, piano piano, iniziare ad accompagnare le famiglie nella loro vita: quando si viene a sapere che una donna attende un bambino, tornare a discutere con loro della genitorialità e, in questo caso, introdurre il tema del battesimo.
Ovviamente per far questo ci vogliono coppie adulte disponibili a rendere questo servizio: ecco perché la pastorale familiare risulta essere fondamentale nella cura del percorso di sequela di Cristo.
Fondamentale è la formazione.
Le coppie che vanno a nome della parrocchia devono essere ben preparate e si mettono accanto.
Possiamo parlare di gemellaggio di coppie, un tutoraggio, questo significa lavorare in modo significativo alla base delle nostre comunità.
Come?
Recentemente è uscito un libro, “Il futuro della fede nell’educazione dei giovani, la Chiesa di domani”, di Rita Bichi e Paola Bignardi. «I ricercatori prendevano in esame, a partire dalle risposte dei figli, le indicazioni dei genitori fondati su tre comportamenti per trasmettere la fede: esempio, testimonianza e dialogo». Tutte e tre importanti, personalmente reputo fondamentale il dialogo. Se un genitore discute con i figli della fede, può darsi che questo confronto sia utile pure a lui per una revisione del proprio stile di vita. Quello che manca è proprio questo: spesso in famiglia non si parla mai di fede.
Andrebbe rivoluzionato il metodo catechistico?
Il catechismo è una “specializzazione” di una fede che i genitori trasmettono tra le mura domestiche. Se il catechismo non è supportato da questa attività in famiglia, lascia il tempo che trova: il grande rischio è che diventa solo un fattore meramente culturale.