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L’Amore parla al plurale

Gli occhi degli Undici vedono e le ginocchia si prostrano nel riconoscimento di colui che è luce di bellezza e terra su cui camminare. Tuttavia questo angolo di paradiso è attraversato dal dubbio. Come è possibile che anche i momenti più solenni, che attendiamo da una vita, in cui sembra che tutto sia al posto giusto, vengano macchiati da quella malefica incertezza capace di rovinarti le cose più belle? Eppure «Gesù si avvicinò»; Dio non ha problemi ad accostarsi e a parlare alla nostra incoerenza, a dialogare con un cuore frammentato che non sa se ama più il Signore o se stesso. E non ti dà briciole di amore o di verità: ti rivela se stesso per quello che è. Il Risorto si presenta come colui a cui «è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra», colui cioè che unisce la realtà di Dio e quella dell’uomo non con la forza del potere ma dell’amore, colui che tra poco, con la sua ascensione al Padre, porterà l’umanità per sempre nel seno della Trinità, «sicché non si può più parlare di Dio senza parlare dell’uomo e pensare l’uomo» (Enzo Bianchi). Questa forza d’amore che lega ciò che prima appariva inconciliabile viene donata agli apostoli e per mezzo loro a tutti i cristiani. «Andate: Dio si è appena fatto trovare e già t’invita ad andare oltre» (Ermes Ronchi), perché la fede è vedere e camminare, fermarsi a contemplare l’amore che ti dà fiducia anche se sei imperfetto, affinché tu possa vivere l’ebbrezza di generare nuovi discepoli e figli con l’insegnamento e il battesimo. Predicare e immergere nell’amore di Dio è il comando definitivo che Cristo lascia alla sua Chiesa. Non si tratta di impartire una dottrina o di compiere un rito di iniziazione, ma di introdurre in una relazione con tre persone che sono in perenne e perfetta relazione tra loro. Ecco allora il mistero trinitario che si rivela a noi anzitutto come mistero di accoglienza, ci chiama al suo interno col battesimo, per farci scoprire che la vita è relazione d’amore e che se manca questa la vita non è tale. Una volta scoperto che esisti perché qualcuno ti ha voluto e che persisti perché lo stesso che ti ha voluto si prende cura di te, allora sei disposto ad ascoltarlo e ad aiutarlo perché altri facciano la stessa esperienza. Non sei obbligato, ma è l’amore a muoverti, in quanto ti senti portatore dell’unica verità che dà vita e per la quale vale la pena dare la vita. Gesù ci chiede di insegnare «tutto ciò che vi ho comandato», non una parte del suo messaggio, pur sapendo che esso in tutto o in parte sarà rifiutato da molti. Eppure la verità di Dio va annunciata ad ogni uomo senza sconti, senza assecondare la tendenza alla mediocrità o alla manipolazione del reale, perché essa è essenziale affinché l’esistenza di qualcuno possa qualificarsi come umana. Questo giustifica il tono imperativo di Gesù, che affida un impegno oneroso ma promette la sua continua assistenza. Ed ecco che il vangelo termina come era iniziato, con l’assicurazione della presenza del ‘Dio con noi’ «tutti i giorni», quelli in cui Lui è percepito vicino e gradito e quelli in cui può risultare un ospite scomodo perché vorresti svincolarti dalla legge dell’amore che ti fa mettere l’altro e non te al primo posto. Questa presenza si estende «fino alla fine del mondo», perché tutte le genti devono essere raggiunte dall’annuncio che salva, non soltanto un gruppo ristretto. Massima apertura, poiché Cristo non ha fondato una setta di eletti, ma ha fatto sentire ogni creatura eletta da Dio e invitata a vivere e raccontare la bellezza di partecipare della stessa vita di Dio. È questa la rivelazione massima del Risorto, che ci ha insegnato a chiamare Dio con nomi di famiglia, Padre e Figlio, mentre lo Spirito è come la mamma che con amore fa da ponte tra i due, il respiro divino che ci è stato donato. Non siamo soli perché Dio non è solitudine ma comunione, e noi siamo a sua immagine.