L’arcivescovo metropolita di Reggio Calabria – Bova ha scelto, per la “partenza”, la ricorrenza liturgica della conversione di San Paolo, l’apostolo a cui risale il primo annuncio del Vangelo nella città calabrese dello Stretto.
Qui di seguito vi proponiamo integralmente l’omelia pronunciata dal presule durante la solenne concelebrazione in Duomo:
Carissimi fratelli e carissime sorelle,
«il Dio della speranza, che ci riempie di ogni gioia e pace nella fede per la potenza dello Spirito Santo, sia con tutti voi» (15,13).
Con questa solenne concelebrazione, nella ricorrenza liturgica dell’Incontro di Saulo di Tarso con Cristo Risorto, apriamo la Visita Pastorale ponendola da subito sotto lo sguardo amico e solidale della Vergine Maria, Madre della Consolazione, Madre sollecita nella Visitazione, e dell’Apostolo delle genti, alla cui passione pastorale la tradizione ecclesiale fa risalire il primo annuncio del Vangelo nella nostra città.
Da lui la Chiesa ha appreso la lezione della Comunione che ci rende uno in Cristo come in solo corpo. Noi, infatti, pur essendo molti «tutti siamo stati battezzati mediante un solo Spirito in un solo corpo, Giudei o Greci, schiavi o liberi; e tutti siamo stati dissetati da un solo Spirito» (1Cor 12,13) che ci rende figlie e figlie dell’unico Padre “per la fede in Cristo Gesù” (cfr Gal 3,26).
Con questa rinnovata certezza, ho pensato, come vi ho scritto ultimamente, di impostare la mia visita alle nostre comunità, a partire dalle Zone Pastorali, per favorire una rinnovata esperienza di Comunione, nella consapevolezza che non possiamo permetterci di sprecare questa speciale occasione di grazia. Lo Spirito del Signore ci offre quest’opportunità per aiutarci e sostenerci vicendevolmente nella comune testimonianza della fede, in questo prezioso tempo di cammino sinodale in cui la presa di coscienza della comunione vissuta ci invita alla partecipazione e ci spinge alla missione. Sento con voi l’urgenza e la necessaria gioia di riproporre il Vangelo nei territori dove le nostre comunità parrocchiali sono chiamate ad essere presenza viva e umanizzante per ogni persona che lì vi abita.
Sollecitati dall’attuale realtà sociale dai plurali volti etnici, culturali, valoriali, religiosi, siamo chiamati a ripensare creativamente la nostra presenza e azione credente con nuove forme e linguaggi, ispirati dal luminoso esempio di S. Paolo.
Le origini dell’avventura cristiana non conoscono infatti un altro evangelizzatore del calibro e dell’originalità dell’Apostolo. La sua singolare passione e la genialità del suo pensiero sono manifestati dai molteplici viaggi missionari registrati dagli Atti e documentati dalle sue lettere che, tra l’altro, costituiscono la prima fondamentale base della letteratura cristiana. Certo, san Paolo ha accolto il messaggio di Gesù dopo la sua morte e risurrezione e tuttavia, prima degli altri apostoli, ci ha regalato l’ispirato approfondimento ermeneutico della predicazione del suo e nostro Maestro e Signore, Cristo Gesù.
«Annunciare il Vangelo non è per me un vanto, perché è una necessità che mi si impone: guai a me se non annuncio il Vangelo!» (1Cor 9,16). Così l’Apostolo sintetizza e mette a tema il motivo, la ragione, la vocazione della sua esistenza credente.
Che cosa ha obbligato interiormente Paolo a portare il Lieto Annuncio ad ogni creatura (cfr Mt 28) se non «l’amore del Cristo che lo possiede e lo spinge (synéchei)» (cfr. 2Cor 5,14) a non tenere per sé come una preda (cfr. Fil 2,6) il tesoro nascosto e trovato, la perla preziosa (cfr. Mt 13,44-46) che unicamente per sola grazia si è a lui rivelata? Avendo sperimentato la gratuità con cui è stato amato dal Signore Gesù (cfr. Gal 2,20) e che ha trasformato radicalmente la sua vita, Paolo comprende che tutti hanno diritto a sentire questa buona notizia, perché tutti sono bisognosi di essere amati, indipendentemente dalle proprie opere (cfr. Rm 3,28), dalla propria condotta di vita: «Giustificati dunque per la fede, noi siamo in pace con Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo» (Rm 5,1).
Paolo ha inteso la missione apostolica come un’urgente necessità, impressa nel suo cuore dal Crocifisso risorto, incontrato e apparso in lui sulla via di Damasco (cfr. Gal 1,11-24 e At 9,1-22; 22,1-16; 26, 12-18), incontro che ha dato alla sua vita «un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva» (DCE 1) per esprimerci con le parole di Benedetto XVI.
Si tratta di un annuncio testimoniale in cui Paolo, configurato a Cristo, è totalmente preso e coinvolto, ma attento sempre alla cultura e sensibilità dei suoi interlocutori che hanno un diritto nativo ad ascoltare almeno una volta la parola evangelica della vita. La comunicazione del Vangelo non si risolve tuttavia in una sorta di consegna porta a porta di nuove dottrine o di riti religiosi, ma si propone nella comunione al Vangelo tra chi lo annuncia e chi lo accoglie, nella comune adesione a Gesù, in modo che tutti siano resi gratuitamente partecipi e, di conseguenza, incaricati del medesimo mandato missionario (cfr. 1Cor 9).
San Paolo, infatti, che ha concepito «la sua parola come un Vangelo il cui fondamento è Cristo» (Daniel Marguerat), si è trovato ad affrontare problematiche e interrogativi inediti in un contesto e in ambienti socio-religiosi greco-romani differenti dall’ambiente palestinese in cui Gesù aveva operato. In un mondo, per alcuni versi globalizzato dalla pax romana e dalla raffinata e variegata cultura ellenistica, l’Apostolo ha saputo interpretare e tradurre l’insegnamento di Gesù senza tradire il nucleo fondamentale del Suo messaggio e delle scelte della Sua vita culminata nella crocifissione, «scandalo per i giudei, stoltezza per i pagani» (1Cor 1,27).
In tal senso egli è un anticipatore di sentieri nuovi che diventeranno paradigmi teologici e pastorali per il futuro del cristianesimo. Sulla scorta della tradizione profetica ebraica, egli intuì che la predicazione cristiana, per l’unicità e la pretesa della sua valenza salvifica, non poteva rimanere circoscritta all’ambiente giudaico e sinagogale, ma era necessario proporla ed esporla fuori dalla Palestina e dall’ambiente giudaico, nell’esistenza multiforme, multiculturale e multireligiosa delle genti.
Paolo tante volte si stupisce davanti all’intuizione del mistero nascosto e rivelato a lui e alla sua generazione: che tutte le genti «sono chiamate in Cristo Gesù, a condividere la stessa eredità, a formare lo stesso corpo e ad essere partecipi della stessa promessa per mezzo del Vangelo» (Ef 3,6). Riformulando la parola di Gesù e innovandola nella cultura del mondo ellenico-romano, Paolo ha aperto l’incipiente Cristianesimo all’universalità umana del suo tempo, nell’intima certezza che la vicenda del suo Maestro, culminata nel dono della sua vita nell’evento pasquale di morte e resurrezione, è la Parola definitiva del Dio di Abramo, il padre dei credenti e di tutti coloro che cercano giustizia e verità con cuore sincero, a qualsiasi popolo appartengano (cfr. Rm 4).
Si è trattato di un’azione profetica e audace, un’inculturazione ante litteram del Vangelo, che costituisce la norma normans del nostro pensare la fede e agire nella fede in tutti gli ambiti dell’oggi, nelle agorà postcristiane e postumane di questo tempo, perfino nelle piazze virtuali dei social e del metaverso frequentate soprattutto dai nostri giovani, che Paolo non avrebbe avuto timore di abitare, con l’umiltà di chi sa farsi «debole per i deboli, per guadagnare i deboli[…] tutto per tutti, per salvare a ogni costo qualcuno» (1Cor 9, 22). Probabilmente avrà fatto così, anche qui a Reggio nella giornata della sua breve sosta, prigioniero con altri, prima di riprendere la navigazione verso Pozzuoli e da qui a piedi verso Roma per difendere la causa di Gesù davanti all’imperatore.
Possiamo allora pensare che per san Paolo, segnato in profondità dalla sorprendente, imprevedibile e debordante Luce del Risorto l’autentico κοινὴ διάλεκτος originario e genuino linguaggio umano a misura del cuore di ogni uomo, è il Vangelo di Gesù, l’Unigenito del Padre «nato da donna, nato sotto la Legge, per riscattare quelli che erano sotto la Legge perché ricevessimo l’adozione a figli» (Gal 4, 4-5), radice profonda e comune dell’essere veri uomini.
In Gesù, il Crocifisso vivente, con l’Apostolo infatti riconosciamo e confessiamo l’uomo vero, ecce homo, il nuovo Adamo, nostra via, verità e vita. Certo, questa è la pretesa cristiana che siamo chiamati ad annunciare sapendo però argomentare e testimoniare come e con Paolo che in Cristo Gesù tutti siamo stati amati e predestinati ad essere figli e figlie dell’unico Padre (cfr Ef 1), ad essere in Cristo una cosa sola, dato che in Lui «non c’è più né giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero, non c’è più uomo né donna» (Gal 3,28) tutti siamo Uno, indipendentemente da ogni merito personale, a prescindere da ogni appartenenza etnica, sociale, religiosa.
E tuttavia, si chiede Paolo, mentre interpella anche noi: «Come crederanno in colui del quale non hanno sentito parlare? Come ne sentiranno parlare senza qualcuno che lo annunci»? (Rm 10, 14)
Se Paolo ha calcato il nostro suolo, dovremmo riconoscere nella passione evangelizzatrice dell’Apostolo la particolarissima vocazione identitaria della nostra Chiesa reggina-bovese. Oggi più di ieri, con maggiore consapevolezza sentiamo che annunciare e comunicare il Vangelo in questo mondo in continua e veloce trasformazione, deve costituire il nostro assillo permanente, riferimento critico di ogni nostra azione pastorale e di ogni devozione e ritualità religiosa, il cuore pulsante delle nostre liturgie, prima carità da praticare. Annunciare a tutte le genti, presenti nel nostro territorio «in ogni maniera, per convenienza o per sincerità, Cristo Gesù» (cfr Fil 1,18) in continuo dialogo religioso e culturale.
È questa Grazia incommensurabile che noi abbiamo ricevuto e che con gratitudine siamo chiamati a trasmettere (cfr 1 Cor 15,1) a portare in dono nei vari habitat del vivere quotidiano con la nostra pur fragile ma sincera testimonianza, insieme a competenze umane e professionali: dalla scuola alla famiglia, dalla sanità all’economia, dalla politica allo sport, dal lavoro al vasto e complesso campo delle migrazioni, dalla lotta contro ogni ingiustizia e violenza di ogni potere, alla cura delle tante fragilità affettive.
L’evangelizzazione nelle sue molteplici forme sarà, pertanto, il leit-motiv
dell’ascolto e del dialogo nello svolgersi della Visita Pastorale.
So che già vi muovete in questa linea e vi ringrazio di vero cuore. In questi anni ho avuto modo in non poche parrocchie di apprezzare le varie iniziative per portare la gioia salvifica del Vangelo a tutti. Ora, sollecitati dal cammino sinodale intrapreso, siamo chiamati a riscoprire la costituiva e fondamentale identità del nostro essere Chiesa, Popolo Santo di Dio chiamato ad annunciare insieme le meraviglie del Suo amore. E tuttavia, guardando a san Paolo, siamo spinti a osare di più: se veramente Gesù ha catturato la nostra vita, l’annuncio del Vangelo che la Chiesa pone nelle nostre mani inviandoci, è la nostra priorità su tutto. È necessario allora avere il coraggio di fare insieme e responsabilmente alcune scelte pastorali per alleggerire le molteplici attività, da quelle catechistiche a quelle devozionali, che già da tempo ci siamo resi conto che, in questo tempo-momento storico, non servono alla causa del Regno e alla maturità credente della nostra gente, anzi appesantiscono il cammino ecclesiale impedendo alla Parola salvifica di correre oltre i confini e gli spazi santi delle nostre assemblee.
La Visita Pastorale, nella sua fase zonale, dovrà aiutarci con sincera partecipazione a rilevare l’immagine attuale della nostra Chiesa ricca certamente di fermenti di vita cristiana, mentre ci favorirà la consapevolezza dei limiti e delle lentezze dovute alle nostre povertà e incompletezze formative. In fondo tutti desideriamo crescere in maturità di fede e pertanto in umanità secondo l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità e l’amore di Cristo che sorpassa ogni conoscenza e così essere potentemente rafforzati dal Suo Spirito nell’uomo interiore (cfr. Ef 3, 16-19).
Con san Paolo allora possiamo prendere consapevolezza delle radici apostoliche della nostra identità di Chiesa reggina, riappropriandoci della postura missionaria (cfr. EN 14 e EG) del nostro essere discepoli e discepole del Signore Gesù e, nello stesso tempo, imparare dalla sua passione evangelica e dal suo metodo ad entrare in dialogo chiaro e costruttivo con la nostra realtà sociale. Per questo ho pensato di avviare una Scuola biblica paolina, così come ho proposto nella Lettera pastorale.
Allora, diamo avvio allora alla Visita Pastorale!
«A colui che in tutto ha potere di fare molto più di quanto possiamo domandare o pensare, secondo la potenza che già opera in noi, a lui la gloria nella Chiesa e in Cristo Gesù per tutte le generazioni, nei secoli dei secoli! Amen!» (Ef 3,20-21).
Fortunato Morrone
Arcivescovo metropolita di Reggio Calabria – Bova