Un amministratore viene dunque accusato di sperperare i beni del padrone. Non sappiamo in cosa sia consistita questa cattiva gestione, ma sembrerebbe trattarsi della contestazione di una impostazione generale del suo operato. Ognuno è chiamato ad amministrare bene la vita ricevuta in dono da Dio, ma può accadere che abbia sbagliato su tanti o su tutti i fronti. Ritorna l’interrogativo: cosa conviene fare? È necessario porsi a lungo tale domanda, parlare al proprio bisogno di salvezza, che forse non è emerso per tutta una vita schiacciata su un presente materialistico, senza un respiro ampio e l’attesa di un futuro eterno. Il desiderio di rimediare al male che si è procurato può farsi urgente dinanzi a un pericolo mortale o alla conclusione naturale della propria esistenza. È qui che la ‘convenienza’ deve guidare pensieri e comportamenti per poter sperare nella salvezza, se uno ci crede. Certo, non è meritorio il fatto che una tale conversione avvenga per timore della dannazione eterna, ma forse Dio si lascia impressionare dalla nostra incoerenza e dall’opportunismo? Quasi tutti gli uomini amano Dio meno di quanto amino se stessi, ma Egli non smette di darci occasioni per poter entrare nella sua beatitudine. L’amministratore è attraversato dalla preoccupazione del futuro e finalmente vede il presente come lo spazio d’azione della sua creatività per procurarsi un avvenire sereno. Parte da ciò che si potrebbe fare ma che lui non sa fare, ossia zappare e mendicare. La prima attività appare troppo faticosa, mentre la seconda era disdicevole per la mentalità religiosa ebraica. Al di là delle ragioni fisiche e culturali che lo dissuadono, le due azioni comportano l’assenza di una relazione interpersonale, perché si limitano a un rapporto con la nuda terra e con un benefattore occasionale, laddove una vera salvezza richiede un dialogo, anzi un patto di alleanza con qualcuno. Nessuno può darsi da solo salvezza; ecco perché il fattore deve incontrare, chiedere, attendere e ricevere dagli altri qualcosa. La differenza è che stavolta egli è disposto a dare. Prima prendeva per sé, sperperando i beni del padrone, e non contemplava il volto dell’altro nel proprio orizzonte; adesso il prossimo ha una duplice funzione: il volto da servire diventa occasione di salvezza. L’uomo attiva una serie di abili strategie: chiama i debitori del padrone ad uno ad uno, perché ciascuno abbia la sensazione di ricevere un trattamento speciale; condona parte dei loro debiti, rinunciando così al guadagno che per consuetudine gli spettava, una volta soddisfatto il padrone; infine confida che al momento opportuno gli saranno riconoscenti. Non ne ha la certezza, ma mentre prima riponeva la propria fiducia nel denaro, ora mammona non diventa più un fine, bensì un mezzo per procurarsi degli amici. Paradossalmente adesso non viene più accusato ma lodato; non è ovviamente la disonestà ad essere premiata, come commenta Luca, ma la sua prontezza. L’amministratore disonesto ha pensato alla salvezza terrena: avranno «i figli della luce» la medesima virtù per procurarsi la salvezza eterna? A questa si accede anche usando bene la ricchezza terrena, ossia come una possibilità di fare del bene ai poveri, riparando in tal modo al fatto che la ricchezza in sé è ingiusta, in quanto consiste in risorse accumulate e sottratte ai poveri. Alla luce della parabola, ci chiediamo: in cosa investo tutto? In beni che si esauriscono o in relazioni che non finiscono, poiché ci si salva anche grazie alla testimonianza e all’intercessione altrui? La scelta s’impone, perché non si possono servire due padroni. Il dramma di oggi è che, pur cercando il Signore, molti non riescono a staccarsi dalle seduzioni del mondo…e si passa tutta la vita a barcollare come ubriachi, non di Spirito ma di instabilità morale e spirituale. Serviamo Colui che ci ha sempre servito, fin dal grembo materno!