Niente di più semplice e ordinario per gli ascoltatori di ieri; un po’ meno per quelli di oggi, anche se da più parti è invocato un ritorno alla terra come fonte di sussistenza, ma a cui Gesù insegna di guardare soprattutto come maestra di vita. Qual è il messaggio che essa ci trasmette? Già la parabola del seminatore ha rivelato che il seme è la Parola del Dio, piantata nel campo del cuore umano dalla bontà del Padre nella totale gratuità e fiducia che essa dia il frutto sperato. Ora, la prima parabola che leggiamo nell’odierna Domenica pone l’accento sul seme che cresce per forza propria, poiché è dotato di un principio vitale che evidentemente è stato impresso dallo stesso Creatore. Non è l’opera dell’uomo a determinare la maturazione, anzi ciò che viene sottolineata è l’inattività del contadino: «dorma o vegli, di notte o di giorno», sia egli un buono o cattivo agricoltore, il seme germoglia. Non si tratta di un invito alla pigrizia, ma alla paziente fiducia in ciò che ancora non si vede ma il cui risultato è certo ed ha il sapore delle promesse fondate sulla credibilità dell’artefice della semina e sulla verificabilità del raccolto nella storia passata. Coloro che invece nell’opera di evangelizzazione si lasciano travolgere dall’impazienza, «ottengono, come unico risultato, di apparire irritanti, aggressivi, intolleranti» (Fernando Armellini). È consolante pensare che il prodigio della Parola che dà frutti di conversione e amore nella vita degli uomini non è un bene di produzione propria, perché ciò provocherebbe, a seconda del temperamento di ciascuno, orgoglio o scoraggiamento. La fecondità è opera di Dio; l’unica attenzione che noi dobbiamo porre è che il seme rimanga nel campo, che la Parola sia custodita dentro e non estirpata. E «quando il frutto è maturo, subito egli manda la falce». Il verbo qui utilizzato è quello dell’invio, lo stesso termine che designa gli apostoli, quasi a suggerire che essi sono quella falce che serve a mietere ciò che un Altro ha seminato e che a Lui appartiene. Quanto è importante ricordare che il bene di cui godiamo è dono di Dio, che lo condivide con noi e chiede di condividerlo a nostra volta con i fratelli! Niente di più semplice da capire e di più complicato da attuare!
La seconda parabola sottolinea la sproporzione tra il granello di senape, «il più piccolo di tutti i semi», e la grandezza dell’albero che da esso nasce. Gesù ribalta le nostre categorie di grande e piccolo, perché un accadimento minimo e insignificante può diventare la grande opera di Dio nella nostra vita. Come le scelte più radicali dei santi, che nascono da una intuizione affiorata quasi per caso, all’inizio impercettibile, ma che poi prende sempre più corpo fino a dare ombra e nutrimento a tanta gente che cerca il senso della vita. Si parte dunque sempre da ciò che è piccolo e disprezzato: «la parola di Dio è sempre “la parola della croce” (1Cor 1,18) e la sua efficacia è dello stesso ordine dell’efficacia salvifica della croce: potenza di vita celata nell’impotenza di un crocifisso» (Luciano Manicardi). Come convertirci a tale piccolezza? La chiave sta nei versetti conclusivi, in cui Marco riferisce che Gesù «in privato, ai suoi discepoli spiegava ogni cosa». È nel colloquio intimo col maestro che ci è fatto il dono di accogliere la sua logica; chi non si mette a nudo dinanzi a Lui, come il seme che si spoglia, marcisce e cambia pelle fino a diventare una pianta, non vivrà il miracolo della trasformazione del cuore. Sono pronto a imparare l’amore anche dal dolore? Sono disposto, se necessario, a rinunciare a ciò che mi appaga per accogliere il bene che Dio vuole darmi? Impariamo dal seme ad arrenderci all’amore vero, a non opporre resistenza a quella promessa di vita che il Signore continua a spargere. Non sostituiamo la sua Parola con parole non hanno alcuna forza. Solo la sua Parola sa andare così a fondo e una volta dentro non torna indietro senza portare frutto. Forse non subito, forse non come ci aspetteremmo, ma agirà. In modo imprevedibile, ma agirà.