«Questa azione – spiega Morosini – rientra in quello sforzo che come diocesi stiamo facendo per rispondere agli appelli dello smarrimento che già dall’età adolescenziale lanciano questi studenti».
Una Chiesa “in uscita”, per usare un termine tanto caro a Papa Francesco, che a Reggio Calabria dopo alcuni recenti fatti di cronaca – come la violenza di gruppo di Melito Porto Salvo ai danni di una tredicenne e il suicidio di una studentessa figlia di un affiliato di ‘ndrangheta – ha deciso di sedersi tra i banchi di scuola.
«Aspetto i ragazzi che vogliono parlare», ci dice il vescovo reggino.
Gli allievi del Liceo Classico “Campanella” di Reggio Calabria si avvicinano a padre Morosini «alla spicciolata, sono quasi tutti quelli dell’ultimo anno. Nel dialogare con loro, potendoli guardare negli occhi, affrontiamo gli argomenti della libertà e dell’affettività – sottolinea il presule – tematiche che spesso sono trattate con troppo superficialità». Il vescovo precisa che «l’iniziativa non ha lo scopo di portarli in Chiesa, vogliamo essere da sostegno alle fragilità adolescenziali. Ma è innegabile che tanti di questi giovani hanno bisogno di spiritualità e di fede e lo dimostrano sin dalle prime battute delle nostre chiacchierate». La scuola, in questo, si sta dimostrando un’agenzia educativa evoluta: «Anzi, molti insegnanti hanno chiesto un confronto personale anche con loro». Un progetto, quello dello Sportello di ascolto, che è stato approvato dal Consiglio di Istituto all’unanimità.
Una piccola risposta ad un grande bisogno. A riprova ci sono i dati sulla povertà educativa che un pugno nello stomaco, soprattuto se parametrati quelli del Mezzogiorno, e della Calabria in particolare, col resto del Paese. «Il grido d’allarme – afferma il vescovo di Reggio Calabria – l’aveva lanciato già Benedetto XVI quando scrisse la lettera alle famiglie durante il suo pontificato e parlò, a chiare lettere, della “rinuncia educativa” da parte degli adulti. Non sono i giovani cambiati rispetto al passato, ma ciò che è radicalmente mutato è l’atteggiamento dei “grandi”».
Sono vere e proprie «inadempienze che noi adulti abbiamo nei confronti dei ragazzi. I genitori non possono e non devono rinunciare al loro ruolo formativo; mamma e papà non possono essere amici dei loro figli. In realtà la pedagogia spiega chiaramente che questo è un errore. Bisogna essere padri e madri: oggi, purtroppo, c’è la paura di perdere l’affetto dei figli. Si dicono pochi “no” e questo avviene, soprattutto, quando le coppie iniziano ad avere problemi relazionali; c’è una competitività ad “accontentare” i figli per accaparrarsene le grazie».
In questo è necessario, anche come Chiesa, supportare soprattutto le giovani coppie ossia quelle più naturalmente esposte ai “pericoli” della segmentazione della società moderna. «Su questo punto – dice il presule – la Chiesa sta facendo già tanto. Forse c’è poca accoglienza, da parte delle giovani coppie, che non sentono la responsabilità educativa come una fase della vita a cui formarsi. Spesso si aspetta la nascita di un figlio per interrogarsi su come crescerlo, su quali modelli applicare. Bisogna, come parrocchie, arrivare al cuore del problema; far percepire l’importanza del mettersi in discussione».
C’è una “fatica” di fondo che poi si riverbera anche nel vivere adeguatamente il catechismo: «È probabilmente inutile mandare i propri bambini per essere educati cristianamente se poi quei messaggi non trovano riscontri a casa, se non c’è una collaborazione che parte dalla condivisione». Così gli adolescenti si ritrovano, nell’età delle domande, ad avere poche certezze. È necessario, in questo senso, ricostituire i concetti di dialogo, confronto e formazione per avere, domani, degli adulti più responsabili.