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In questi giorni in cui l’anno liturgico ci regala il “Tempo di Natale” quella scena mi ha fatto tanto riflettere, mi sembra che come cristiani molte volte cadiamo nello stesso errore, pensiamo che la scatola che contiene il regalo possa coprire tutto, stiamo ancora una volta facendo passare il dono della nascita di Gesù, preoccupati di tutto ciò che durante gli anni come società abbiamo fatto passare da espressione, personale e comunitaria di un mistero, come dono stesso, come se il Natale fosse l’albero, i regali, il cibo tradizionale o il concerto eseguito in modo impeccabile che creano quel clima per cosi dire “Natalizio”.
Per fortuna nella dinamica del tempo liturgico c’è la seconda domenica dopo Natale che sembra sia stata messa lì per dare “fastidio” agli stessi sacerdoti che nello spazio di circa dieci giorni si trovano a commentare il prologo di Giovanni. Ma è proprio questo splendido fastidio che ci aiuta a ritrovare e prolungare il senso del dono del Figlio di Dio, permettendoci di distinguere il dono dalle normali espressioni che il nostro cuore o le nostre tradizioni ci chiedono di manifestare magari in un semplice “auguri”. Quest’annuncio teologico richiama quelli più semplici e immediati di Isaia e Luca: “Come sono belli sui monti i piedi del messaggero che annuncia la pace, del messaggero di buone notizie che annuncia la salvezza” (Is 52,7); “Non temete: ecco, vi annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore” (Lc 2,10-11).
Questi nella loro brevità e linearità, costituiscono per “l’uomo che ha atteso e che attende” l’inizio di una novità e di una possibilità, Dio volge verso il bene il corso della vita. Il Prologo del Vangelo secondo Giovanni esplicita la bella notizia facendoci entrare e sperimentare nell’atto stesso dell’annuncio la bontà e la bellezza che vengono da Dio e che raggiunge l’umanità. L’evangelista ci chiede di contemplare il bambino deposto nella mangiatoia, che nella debolezza e povertà della sua presenza umana comunica tutta il suo essere e la sua storia divina. In principio era il Verbo, la persona che dà senso a ogni cosa, e il Verbo era presso Dio, e il verbo era Dio. In questa prima parte l’evangelista si concentra non solo sull’inizio, ma sull’essere come dimora, “Presso Dio”, e dell’essere in relazione con, “Era Dio”, l’“Essere” che potrebbe sembrare così distante porta, invece, dentro di sé qualcosa che lo avvicina a noi: la vita e la luce, “In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini”. Il Verbo ha in sé ciò che essenziale per l’uomo.
“E il verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi”, ecco cosa ci dice quel bambino nella mangiatoia, che il Verbo “lascia” la dimora del Padre, (S. Alfonso fa cantare a tutti: “Tu lasci il bel gioir del divin seno”) per dimorare nella carne, per abitare in mezzo a noi, perché la vita e la luce divina dimorando nella carne ora possono essere talmente vicini da essere visibili; “E noi vedemmo la sua gloria, gloria come di unigenito del Padre, pieno di grazia e di verità”. È diventato talmente vicino che la vita e la luce possono essere ricevute in pienezza così come appartengono a Lui e come Lui attraverso l’incarnazione li vuole donare: “Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto e grazia su grazia”. Si comprendono, cioè si prendono dentro di se, allora gli annunci di bellezza e di gioia di Isaia e di Luca, la gioia e la bellezza del Padre non vengono, dunque, lasciati, ma portati, condivisi e nella visione del bambino chiedono di non lasciare spazio alla tristezza nel giorno in cui nasce la vita, una vita che distrugge la paura della morte e dona la gioia delle promesse eterne (S. Leone Magno). Perché quel bambino porta con sé la stessa eternità di Dio. E se mai ci venisse mente di chiederci perché l’ha fatto, allora avremmo solo una risposta: per amore!