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L’amore abita il dolore

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E Gesù accetta il disegno del Padre, lo fa suo, come noi che quando amiamo e soffriamo per amore diamo ospitalità dentro il nostro dolore all’intento divino di toccare il cuore di qualche suo figlio, perché certamente il nostro patire diventa dono d’amore per qualcun altro.
La consapevolezza del disegno paterno emerge fin dall’interpretazione che Gesù dà del gesto dell’unzione di Betania, ricollegandolo alla sua sepoltura e profetizzando la sua perpetua memoria. Dunque tutto è scritto e rimarrà scritto in quanto è il Padre a volerlo. Ma perché Dio permette questo sacrificio consumato nel più totale abbandono da parte degli intimi di Gesù e soprattutto nella percezione della lontananza dello stesso Padre? Cristo nel Getsemani «cominciò a provare tristezza e angoscia»; tuttavia Dio non risponde alla richiesta del Figlio di allontanare il calice di dolore, non gli ha risparmiato la croce, ma lo ha aiutato ad affrontarla. Il silenzio di Dio non è altro che un modo diverso di parlare. Sostenuto da questa certezza, Cristo prosegue il cammino, in cui il suo corpo diventa un oggetto in mano altrui. Una delle forme primordiali di autodifesa è dire: “non mi toccare”; lo dice il bambino al coetaneo col quale si azzuffa e lo diciamo a maggior ragione noi a chi avvertiamo possa farci del male. Gesù non si difende ma accetta che il suo corpo sia alla mercé di coloro che non hanno ancora compreso che in realtà esso è il luogo della manifestazione massima dell’amore, perché sa che anche da un contatto malevolo col suo corpo può scaturire la vita! Vi è anzitutto il bacio di Giuda, gesto d’amore che l’uomo manipolatore ha riempito del veleno della morte. Subito dopo gli «misero le mani addosso e lo arrestarono», come a voler imbrigliare quella potenza d’amore da cui usciva una forza che in tre anni aveva guarito tanti. Ci sono anche parole che ruotano attorno a Gesù, parole di falsi testimoni che alimentano le accuse dei capi religiosi e le parole dinanzi a Pilato che bramano il sangue dell’innocente. Intanto, mentre egli è sballottato tra il potere religioso e quello politico, si consuma il tradimento di Pietro: al maestro è tolto anche il sostegno del discepolo, la creta si ribella al vasaio. Non si trova niente di umano che supporti Gesù e questo avrebbe fatto desistere chiunque. Tutti noi, infatti, anche se siamo disposti a sacrificarci, vogliamo almeno che il nostro dolore sia riconosciuto da qualcuno. A Cristo non è data tale percezione, ma deve solo trarre forza in se stesso e lì cercare il volto del Padre. Gesù non scorge questo volto, ma lo può sognare proprio mentre il suo stesso volto viene sputato: la nostalgia del volto di Dio, di cui quello umano è immagine, diventa il principio della ricostruzione di ogni volto umano deturpato.
Poi la tentazione più grande: scendere dalla croce e salvare se stesso. Era a portata di mano la salvezza, ma Cristo ha saputo rifiutare una soluzione facile. L’amore spinto fino alla fine diventa così fecondo, come dimostra la professione di fede del centurione: «l’uomo di guerra ha visto il capovolgimento del mondo, di un mondo dove la vittoria è sempre stata del più forte» (Ermes Ronchi). È infatti questo amore disarmato che convince e apre i cuori più lontani dalla logica del dono. L’uomo Gesù mostra che esiste un altro modo di reagire alla violenza, ossia la forza dell’offerta e del perdono, sostenuti dalla speranza che il Padre è fedele e concede ciò che promette.
L’istituzione della Eucaristia, che anticipa la morte di Gesù, oltre a dire la consapevolezza di Cristo nell’affrontare la passione, diventa il principio di unità attorno al quale il popolo di Dio può ritrovarsi per superare lo scandalo della morte del Maestro e accogliere la vita nuova della risurrezione. La comunità fallisce e muore dinanzi alla croce, ma la comunità del Risorto nascerà e si ritroverà dinanzi a quel pane spezzato. La donna di Betania, Simone di Cirene, il centurione e Giuseppe di Arimatea sono il segno della nuova comunità di fede nata dalla Pasqua. Ed io in chi mi identifico?