L’evangelista Luca si rivela ancora una volta abile scrittore della misericordia e della tenerezza di Dio. Nessuno come lui sa non solo descrivere con le parole più adeguate, ma quasi dipingere con i colori più belli e vivaci quadri come questo, che fotografano il cuore di Dio, sempre più aperto, disponibile e accogliente, ma anche così diverso dal cuore umano sempre più arido, insensibile e cattivo.
Non ci sfugga che la scena si svolge nel tempio, luogo di spiritualità e di preghiera e che, in quanto luogo della presenza di Dio, inevitabilmente immaginiamo anche come luogo di fraternità e di amore vicendevole. La prima odierna riflessione, per di più fortemente stimolata dal cammino sinodale che stiamo facendo, è chiederci se la Chiesa di oggi assomigli o meno alla comunità della vecchia alleanza. Possiamo dire che le nostre parrocchie e diocesi sono luoghi di fraternità e di misericordia? Si respira da noi quel clima di accoglienza e comprensione voluto da Cristo? Naturalmente non cadiamo nella tentazione di dimenticare che la Chiesa siamo noi, senza fare immediatamente l’esame di coscienza per gli altri, giudicando solo papa, vescovi, sacerdoti e quanti nella Chiesa ricoprono un incarico.
L’altra riflessione ci porta a mettere al centro dell’attenzione la cattiveria degli accusatori che scelgono come facile bersaglio la peccatrice per colpire e affondare Gesù. È lui in fondo ad essere processato in merito alla sua fedeltà e osservanza della legge mosaica circa l’adulterio. Da quei cuori induriti e da quei volti adirati non appare uno spiraglio di luce, un pensiero di pace, uno sguardo di tenerezza. Solo rabbia e crudeltà. Non c’è posto per la comprensione nei confronti di chi a causa della sua fragilità umana ha potuto sbagliare. Ci si appella alla legge, alla giustizia, al rispetto per distruggere una vita, annientare una persona, cancellare un’identità. Non è difficile cadere in questo atteggiamento che certamente nulla ha di umano e di cristiano. Pensiamo solo per un istante a quello che può fare la gogna mediatica verso qualcuno che ha potuto commettere un errore o uno scandalo. Con questo Gesù certo non ci invita al tanto nocivo buonismo, né tanto meno all’ingiustizia e all’illegalità, ma più che mai è per noi Maestro di misericordia e padre di tenerezza, perché nessuno meglio di Lui sa che “di polvere siamo tutti noi plasmati, come l’erba i nostri giorni”, semplice fango prodotto da un po’ di saliva e un pugno di terra.
Eppure, davanti al frastuono di chi urla, accusa e alza il pugno al cielo per invocare giustizia e castigo, Gesù non parla, non grida, ma resta in silenzio, tace, riflette e certamente soffre per quanti, oggi come ieri, sono bravi a puntare il dito, sputare sentenze ed emettere condanne da giudici implacabili, dimenticando la loro personale debolezza, che invece porta i nostri anziani ad affermare: “Nessuno può dire: di questo calice non ne voglio bere”.
Finalmente Gesù apre la bocca non per pronunciare il suo verdetto finale, ma per proclamare la Parola che salva. Un gelo si diffonde in quel luogo santo. Un gelo più freddo e lapidario delle belle pietre e dei marmi che edificavano lo splendido tempio. Un gelo che porta tutti i presenti a lasciar cadere di mano la pietra della quale si erano ben armati, dopo aver scelto la più appuntita e pesante, ormai inchiodati da quella incontestabile verità: “chi di voi è senza peccato, scagli la prima pietra”.
“Rimasero soltanto loro due: la misera e la misericordia”. Così sant’Agostino descrive l’ultima scena del vangelo di oggi. Nel 2016 papa Francesco riprese questa frase, “Misera et misericordia”, per intitolare la sua lettera apostolica a conclusione dell’Anno della Misericordia, con la quale ricordava che si chiudeva la porta santa del Giubileo, ma non certo quella della misericordia, che non può non rimanere sempre aperta, in quanto necessaria per gettare alle spalle il peccato e intraprendere la strada della salvezza. “Vai e non peccare più”: è questo l’inizio di una vita nuova, segnata solo dall’amore e dalla misericordia di Dio.