E lo fa riproponendo alla nostra attenzione la proclamazione del famoso Prologo di San Giovanni, pagina che apre il quarto Vangelo e che più di ogni altra giustifica la considerazione del suo autore come il “teologo” del Nuovo Testamento. Veramente non ci dovremmo mai stancare di tenere sotto gli occhi e soprattutto nel cuore, «un inno all’ottimismo di Dio sull’umanità; esso fin da subito si allontana dalla religione, che presenta un Dio pessimista, nauseato dell’umanità peccatrice» (Alberto Maggi).
Il prologo è il concentrato sia del Vangelo di Giovanni, sia di tutto il Nuovo Testamento; tutti i temi che l’evangelista sviluppa nel seguito del Vangelo sono presenti nel Prologo. In esso si parla di luce e di vita, di grazia e di verità, di amore e di misericordia, elementi che segnano l’inizio della “nuova creazione”, inaugurata con la nascita di Gesù Cristo, unico salvatore del mondo. La nota pagina del Vangelo di oggi non a caso inizia con il termine “in principio”, che non può non richiamare il primo “in principio” di Genesi, che narra la creazione del mondo.
Come in quella prima creazione la luce vince sulle tenebre e dà inizio a una nuova vita, con la venuta di Cristo nel mondo siamo davanti a una rinnovata creazione, che inaugura una nuova era, quella dell’umanità amata, riconciliata e salvata da Dio. La tradizione della Chiesa non si è mai sognata di tradurre “Verbo” semplicemente con “Parola”, poiché questo termine è un po’ come la “Sofia”, la Sapienza del Vecchio Testamento, una categoria biblica così densa di significato tanto da essere personificata, da essere rappresentata come una tenda da «fissare in Giacobbe, con le radici ben piantate in mezzo a un popolo glorioso, una dimora che prende dimora nell’assemblea dei santi» (cf. Sir 24,8- 12). Questo Verbo preesistente è l’origine e la causa di tutto, poiché «tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste».
Questa creazione-realizzazione non avvenne a buon mercato, ma ha richiesto un forte combattimento tra la luce e le tenebre, simbolo del combattimento più arduo e difficile tra il bene e il male, che dovrebbe sfociare per tutti nell’accoglienza di questa stessa ammirabile luce, del Verbo eterno del Padre. La conseguenza per chi lo accoglie è di una grandezza inestimabile, essere cioè costituiti figli nel Figlio. Infatti il Prologo, dopo aver registrato con profonda amarezza l’incapacità del mondo di saper riconoscere e accogliere il Verbo, con le lapidarie parole «venne tra la sua gente, ma i suoi non lo hanno accolto», proclama con forza che diventare figli di Dio è addirittura “un potere”, una forza incalcolabile.
È la grandezza della “figliolanza divina”, una categoria biblica che non finiremo mai di approfondire, non come verità teologica da studiare tra i banchi di scuola dei nostri Seminari, ma una verità da credere e da porre a fondamento di tutta la nostra esperienza e vita di fede: essere figli di Dio, figli da Lui generati, amati e redenti. Cosa potevamo pretendere di più da Dio? Cosa c’è di più grande di potersi rivolgere a Dio chiamando “Padre”, e sentirsi dire da Lui figlio mio, figlia mia? L’ultima espressione del Prologo, «Venne ad abitare in mezzo a noi», oltre a ripresentarci in modo essenziale il mistero dell’incarnazione, ci indica la novità e peculiarità della rivelazione cristiana. Il nostro Dio non abita sopra di noi, nell’alto dei cieli, non vicino a noi, nel paese accanto, ma «in mezzo a noi». Da quando Egli ha preso la nostra carne nessuno è mai più solo e abbandonato, Dio, l’Emmanuele, è con noi.