Si stigmatizza qui una delle rivelazioni più sorprendenti che Cristo ci ha fatto, ossia che l’umano è via per il divino. L’umano non è in opposizione al divino, ma è capace di accoglierlo e di manifestarlo, anzi è l’espressione più alta di esso, se Dio ha scelto di incarnarsi in una creatura umana. Negare questa verità significa negare Dio stesso e l’essenza della fede, chiudersi in una mormorazione senza fine, come certe vite senza Dio che scelgono di non credere ma borbottano la loro insoddisfazione o riflettono tutta la superficialità in cui giacciono. Gesù invece dichiara che andare verso il Dio fattosi uomo è la meta di un cammino tutt’altro che superficiale e che si sostanzia in un movimento attrattivo da parte del Padre.
È il Padre l’origine di tutto, colui che invia il Figlio all’uomo e l’uomo al Figlio, il quale a sua volta conduce i fratelli alla risurrezione. L’uomo si lascia attrarre ascoltando la Parola, ricevendo quell’ammaestramento diretto che in Geremia 31 non richiede più la mediazione umana né fa selezioni perché «tutti saranno istruiti da Dio». Dunque il dono di Dio è frutto della sua iniziativa gratuita ma richiede una risposta libera e personale, come dimostra il fatto che solo «chi crede ha la vita eterna».
Perché è difficile credere? La ragione per credere non sta nel vedere il Padre, poiché «solo colui che viene da Dio ha visto il Padre», ma si alimenta nel rimanere in comunione col Figlio da qui all’eternità. Per quattro volte vi è l’accenno alla vita che non muore, quasi a ricordarci che siamo troppo appiattiti sul presente e mangiamo pane che non ci nutre nel profondo. Il vero pane è quello «che discende dal cielo», pegno di vita eterna, capace di trasformarti in ciò che esso è, cielo su questa terra. L’ultimo versetto è un chiaro riferimento al pasto eucaristico, come prima si sottolineava il valore del pane della Parola. È la logica sacramentale che guida tutto il vangelo di Giovanni.
Tuttavia Gesù non fa un trattato di teologia; le sue parole sono già intrise del sangue del sacrificio in croce, come attesta l’indicazione al futuro: «il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo». Cosa avrà pensato Cristo mentre, pronunciando queste parole, intravedeva già la croce? Come è possibile parlare di vita mentre si intuisce la propria morte? Questo indomito canto alla vita conferma che l’insegnamento del nuovo e definitivo profeta vuole aprire la vita del popolo ad un orizzonte di speranza, vuole che il mondo sia popolato da “viventi”, sapendo che una forma di vita che non aspiri a trascendersi nell’eternità è votata alla morte.
Anche le esistenze che appaiono più vincenti, ma non hanno accolto la fede, si sgretolano in un attimo dinanzi all’esperienza del fallimento di uno degli obiettivi mondani a cui si sono legate. Che triste vedere anziani che fino alla fine sono impelagati in conteziosi con parenti o vicini per questioni di proprietà, invece di prepararsi a entrare nella terra della promessa eterna! Né mormorazioni quindi, né disquisizioni sull’identità di Gesù, ma il modo per arrivare a Dio è «tuffarsi nel suo mistero e cercare pane vivente per la tua fame» (Ermes Ronchi).
È importante interrogare la nostra coscienza, o meglio la nostra fame: se essa intende soddisfarsi con cibi che cerca, produce e riceve a buon mercato, oppure lasciare che sia un altro a dare pienezza al suo bisogno di senso e di felicità. L’altro giorno una coppia ha ricevuto prima di ogni previsione un neonato in adozione; sembrerebbe come piovuto dal cielo inaspettatamente, ma in realtà in questo dono risuona pienamente alle orecchie dei genitori l’affermazione: «Io sono il pane vivo disceso dal cielo».
Dio e l’uomo si incontrano ancora una volta nel pane e nel bambino. Scegliamo non congetture umane per risolvere le mancanze o i problemi, ma restiamo in fiduciosa e operosa attesa della grazia che ci salva. Non devi fare niente per guadagnartela ma, ricevutala, devi ridonarla a qualcuno perché solo «il pane vivo» ha il potere, una volta mangiato, di renderti pane per gli altri.