Un detto latino asserisce che «agere sequitur esse», («l’agire segue l’essere), ossia che non si può agire e operare bene se prima non si acquisiscono le caratteristiche e attitudini che ci permettono di essere quello che desideriamo. Non ci si improvvisa professionisti, nel nostro caso missionari, senza prima aver coscienza della propria identità e appartenenza. Siamo cristiani, apparteniamo a Cristo, ed è Cristo che siamo chiamati a portare agli altri. È una scena molto interessante quella che ci presenta Luca nel suo vangelo: l’invio dei discepoli per l’annunzio della parola di Dio. Cerchiamo di coglierne i punti salienti che possono spiritualmente aiutarci. Innanzitutto incontriamo un numero: settantadue. È opinione comune considerare che il numero si riferisce alle etnie diverse conosciute al tempo di Gesù e dunque un modo allegorico per dire che Egli manda i suoi discepoli non a un popolo o nazione prescelta, ma a tutti i popoli della terra. Non è sbagliato pensare anche che Gesù volle mandare quelli che aveva a sua disposizione, sottolineando così che quel che conta non è il numero più o meno abbandonate o sufficiente, né che gli operai siano proporzionati alla «messe» che invece è molta, ma che ci sia sempre qualcuno disposto per l’opera di evangelizzazione. Ecco perché è Lui stesso ad affidarci l’intenzione di preghiera forse più cara al suo cuore di Pastore, «pregare che ci siano operai nella sua messe», non dimenticando in fondo che il raccolto non dipende tanto dalla nostra bravura ed efficienza, quanto da Lui che ne è il padrone. Il campo che attende i missionari non è per niente rassicurante e incoraggiante. Gesù li avvisa con l’espressione «vi mando come agnelli in mezzo ai lupi», il che significa che il vero missionario non confida in beni umani e strumenti personali, che addirittura il maestro chiede di abbondonare senza la minima esitazione. Nonostante ciò i discepoli partono sereni, fiduciosi, decisi. Da dove viene tanta sicurezza e coraggio? Dalla consapevolezza di non essere loro a prendere l’iniziativa e partire, di non agire per conto proprio, ma di essere mandati da Gesù; essi hanno fede in Lui, lo amano e sanno che Egli li segue, li guida e li protegge in tutti i passi dell’arduo cammino. Le indicazioni inequivocabili e precise che il Signore dà ai suoi discepoli circa uno stile di vita sobrio, distaccato e umile, fondano la caratteristica fondamentale del missionario: la forte disponibilità a non portare se stessi, con la proprie capacità e competenze, ma l’annuncio del perdono e della pace. Eppure quanta difficoltà negli evangelizzatori di ieri di oggi, sempre alle prese con la tentazione di apparire e di emergere! Gesù ce lo ha fatto capire con chiarezza: il lieto annuncio, o se volgiamo usare la felice espressione di papa Francesco, la gioia del Vangelo (lettera Evangelii Gaudium), è capace da solo di attirare e conquistare il cuore degli uomini. Guai dunque a puntare sul prestigio dell’oratoria, la potenza dei mezzi umani, l’altisonanza dell’autoreferenzialità, che non aiutano e favoriscono, anzi scandalizzano e allontanano, rendendo non solo i missionari semplici “venditori di fumo”, disperati ricercatori di fama e carriera, ma addirittura svilendo e svuotando il forte richiamo evangelico alla salvezza che non è potere, successo e ricchezza, ma povertà, umiltà e mitezza. Vissuta in questi termini, la missione della Chiesa sarà caratterizzata dalla gioia, come evidenzia l’ultimo versetto del vangelo di oggi: «I settantadue tornarono pieni di gioia». «Non si tratta – ricorda papa Francesco – di una gioia effimera che scaturisce dal successo della missione, al contrario è un gioia radicata nella promessa chi “i vostri nomi sono scritti nei cieli”, ossia che la vera gioia non sta nelle cose terrene e mondane, ma nelle realtà celesti ed eterne».