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Il fariseo e il pubblicano. L’umiltà salva il peccatore

Il fariseo e pubblicano al tempio

Il tema della giustizia nel Nuovo Testamento viene trattato in modo particolare da San Paolo per illustrare e dimostrare la dinamica del processo della storia della salvezza, la conseguente realtà umana frutto di questo processo salvifico e l’agire morale dell’uomo stesso. Il tema e il linguaggio che ne richiede è ripreso in modo diverso dagli altri libri e dai diversi autori, in modo particolare dall’evangelista Luca; c’è, infatti nella sua opera, un filo rosso che l’attraversa, la ricerca di quel «giusto» e di quella «giustizia», che tante volte l’uomo si è attribuita con una pretesa orgogliosa, senza riconoscerla come dono, di una «giustizia» e di un «giusto», che solo alla fine della prima opera, il Vangelo, viene rivelata sulla croce da e in Gesù Cristo come testimoniano bene le parole del centurione che vedendo quello che era accaduto da gloria a Dio dicendo: «Veramente quest’uomo era giusto».
Con molta attenzione l’evangelista abitualmente ci rivela il motivo per cui Gesù racconta la parabola, nella parabola riportata dal brano evangelico della XXX domenica del tempo ordinario: «Per alcuni che avevano l’intima convinzione di essere giusti e disprezzavano gli altri». L’obiettivo, dimostrare l’assurdità di questa pretesa, viene raggiunto mettendo in contrasto il termine «giusto» con il termine «giustificato». Se a livello linguistico questa distinzione potrebbe sembrare irrilevante, non è così in ambito teologico–esistenziale, quello che Gesù cerca di correggere, infatti, non è solo un atteggiamento esteriore, ma la mentalità presente a livello profondo che di solito guida questo comportamento. I due uomini protagonisti del racconto che permettono di veicolare il messaggio sono qualificati in base a uno status sociale–religioso, il fariseo e io pubblicano, e presentati nell’atto di relazionarsi a Dio che contribuisce in modo più sottile e completo a rivelare la loro identità, poiché manifesta la coscienza di sé stessi e la considerazione degli altri.
Se analizziamo meglio le parole che descrivono la coscienza del fariseo ci accorgiamo che non legge sé stesso in riferimento a Dio, ma solo agli altri e vede il suo stato come già definito, non bisognoso di Dio, quello che lui è, in questo caso migliore degli altri, gli permette di porsi davanti a Dio e di ringraziarlo. Anche se non lo afferma direttamente, egli si ritiene giusto, per questo ringrazia Dio, non solo, pensa di mantenere questa giustizia e questo stato mediante il suo comportamento legato all’osservanza della legge. Il secondo personaggio, invece, ha un atteggiamento diverso, mentre il fariseo sta ritto perché convito che il suo stato di giusto glielo permetta, il pubblicano con la testa china, tipico di colui che ha sbagliato e quindi ha bisogno, si batte il petto.
Anche le parole sono diverse, mentre il fariseo ringrazia per uno status ormai acquisito, il pubblicano chiede aiuto a Dio per il suo stato di peccatore. Indirettamente le parole e i gesti manifestano la reale differenza ontologica, il fariseo chiude a Dio la possibilità di fare qualcosa per lui, riconosce uno status, che attribuisce a Dio, infatti lo ringrazia, ma non si sente bisognoso di altro, non riconoscendo il suo stato di peccatore e attribuendosi quello di giusto, lascia a Dio un’unica possibilità, confermare e applaudire il fariseo.
Il pubblicano sa che il suo stato davanti a Dio non è definito, «il suo peccato» gli permette di vedere la parte mancante e di richiedere l’intervento della bontà di Dio. A questo punto diventa rilevante la lettura che Gesù fa alla fine della parabola, in cui il termine chiave è «giustificato». Gesù, infatti, non definisce il pubblicano giusto perché in effetti non lo è, e non può esserlo, poiché in questo caso il termine «giusto» è un attributo che appartiene esclusivamente a Gesù Cristo, il pretenderlo significa farsi come Dio.